AMARGINE

Sono andato in Panda con Rkomi. ClassificaGeneration, stagione III ep. 10

Quindi i finlandesi sono il popolo più felice del pianeta. Così sostiene il Sustainable Development Solutions Network, ormai da un paio di anni. Che belli questi rapporti, dev’essere divertente lavorarci. Forse c’è persino qualcosa di plausibile. Comunque, chi li avrebbe mai citati per primi? “Dimmi un popolo che ha l’aria sollazzata” “Ah, sicuramente i finlandesi”. E dire che le renne hanno il muso lungo. Quali saranno i parametri? Sono calcisticamente inconsistenti, gastronomicamente modesti, climaticamente problematici, economicamente timidi. Insomma, nulla di quello che farebbe felici NOI, così ricchi di tutto. Cosa ci facciamo allora così in basso in questo rapporto, 36esimi? Io guardando le prime posizioni ho un’ipotesi: uno dei parametri è il metallo. Più c’è heavy metal, più si è felici. Del resto, i fan del metal guardano ai Black Sabbath come padri nobili, ditemi voi se non sono dialetticamente inattaccabili. Peraltro accanto ai big del fragore, anche i nomi finnici affacciatisi nel mainstream internazionale, tipo HIM o The Rasmus, hanno una qualche parentela coi bombardoni più ortodossi. Ma detto questo, mi viene anche da fare un’ipotesi corollaria: meno rap rende più felici.
O forse, più tieni il muso, più diventi rappuso.

Io detto tra noi penso che in Italia ci sia più rap del necessario. Ne faccio proprio un discorso di sostenibilità. Sì, va bene essere verbosi e lamentosi, ma sta togliendo terreno coltivabile a tutto il resto, si sta mangiando l’ecosistema tipo il pesce persico del Nilo nel lago Vittoria (cfr. L’incubo di Darwin). E il 90% del rap italiano è brutto, scemo, inutile, noioso, banale, orgoglione e brodoso: è puro opportunismo per capponi maschi che non hanno voglia di impararsi un mestiere – cosa che lo apparenta tantissimo al governo in carica. E non credo nemmeno che i capponi in questione siano realmente infelici. Né che abbiano qualcosa da dire che non sia “Aaaah, non credevate in me, bitches, e guardate ora”. Scemo, non credo in te nemmeno ADESSO. Cosa dici? Hai un Rolex? Ne hai due? Buon per te, sai che ora è.
Ma il fatto è che mio malgrado questi babbei possono contare su un pubblico che – per il 90% – è clamorosamente pigro. Davvero, le orecchie gli servono come elementi decorativi della testa.

Ma c’è un corollario anche qui. Ovvero: il 90% è da buttare, ma il 10% vive e lotta insieme a noi. Fa una fatica inaudita, ma non demorde. E in questo 10% c’è Mirko Martorana in arte Rkomi, milanese, quartiere Calvairate (non il più depresso che possiate immaginare) (…oddio, non che la gente sghignazzi per strada). Il suo album concede quello che deve concedere: autotune anche a sproposito, 6 featuring su 13 brani, strategici e di alto profilo anche nel pop (Elisa, Jovanotti, Sfera Ebbasta, Ghali, Carl Brave, Dardust), brani di durata contenuta (36 minuti totali). Ogni tanto le basi di Charlie Charles sono del tutto intercambiabili con quelle di qualunque altro dei suoi cinque “Bimbi” (gli altri eran Ghali, Sfera, Izi e Tedua).

Però c’è musica. Per capirci, alla fine del brano iniziale c’è addirittura una coda strumentale di 42 secondi – e per i 15enni, 42 secondi senza “Uh!” “Fra’!” o “Gucci!” è un tempo interminabile e wagneriano. Ci sono rime – anzi, interi brani che non vanno incontro al pubblico più facile, quello che porti a casa elencando i brand e il tuo encomiabile appeal sulle troie. Sbaglierò ma soprattutto nella parte centrale dell’album io vedo del coraggio, c’è una considerazione per le donne quasi degregoriana (un brano intitolato Alice sembra messo lì apposta perché io abbocchi all’amo, e infatti eccomi); c’è il tentativo di non escludere chi ha più di 17 anni, c’è voglia di approfittare del microfono per comunicare qualcosa di più, per cercare i propri simili perché “Visti dall’alto siamo meglio / di come mi presenti, di come mi presento”. Anche quando fa il pingone, come negli ultimi tre brani (messi in fondo non per caso) tipo in Cose che capitano, non lo fa in modo tirato via e sciatto, incornicia quella pingoneria con del funky che gli si attagli. Nella classifica dei presunti album, Dove gli occhi non arrivano è entrato direttamente al n.1 detronizzando Start di Ligabue. E se volete vederci una valenza simbolica, io non la incoraggio, però vi do il mio appoggio esterno.

Resto della top ten. Risale al n.3 Bohemian rhapsody, ma rientra in top ten anche la colonna sonora di A star is born, si vede che i David di Donatello hanno acceso una insopprimibile voglia di film non italiani. Salmo rimane saldo al n.4, seguito da Ultimo e Lazza. Mahmood, Nayt e di nuovo Ultimo concludono la top 10. Riassumendo, otto italiani più due colonne sonore premiate con l’Oscar. Non so cosa pensare. Quindi non penserò.

Altri argomenti di conversazione. Escono dalla prima diecina Madman, i Coma Cose (dal n.9 di ingresso al 27), Paola Turci (entrata al n.6, scende al 36). Poche le nuove entrate, c’è Nesli al n.28, Giovanni Truppi al n.75, il neomelodico Anthony lo precede al 73, poi prodotti per discepoli come la deluxe di Fleurs di Capirebattiato (n.20) o The dirt soundtrack dei Motley Crue (n.66). Gli album di più lunga militanza in classifica sono sempre quei tre: Hellvisback platinum di Salmo (164 settimane), The dark side of the moon (125) ed Ed Sheeran (108). Sono invece usciti di classifica Canova (dopo 3 settimane), Simone Cristicchi (anche lui 3), la raccolta dei Negrita (6 settimane). Smog di Giorgio Poi che era entrato al n.19 è sceso sotto il n.100 in sette giorni, Dido è durata una settimana al n.27, mentre l’ex n.1 Plume di Irama si è deciso a sloggiare dopo 41 settimane.

Sedicenti singoli. La stretta di mano con #Salvini porta benone a Mahmood, che perde il n.1 e viene superato sia da Con calma che da Calma, inni dei 50enni, la generazione #nostress e #buongiornissimo. Al terzo e quarto posto invece due brani che si rivolgono ai giovani, Soldi e Per un milione – una curiosa successione di argomenti, vero? Calma e soldi, i pilastri della saggezza, per una

Miglior vita. Sette album di artisti o gruppi guidati da artisti che hanno abbandonato questa valle di crescita zero; cinque sono dei Queen. Ne sono felice ma c’è qualcosa che non va con Nevermind: scende dal n.98 al 99, non vorrei mai che la vena creativa dei Nirvana si fosse esaurita o che il popolo rock avesse smesso di credere in loro – per fortuna possiamo contare sui

Pinfloi. The dark side of the moon sale dal n.56 al n.49, ma anche The wall sale dal n.74 al 56, a me piace vederci una sostanziale soddisfazione per le vicissitudini della Brexit e i guai dei Britanni, sappiamo tutti che è quando sono depressi e in crisi economica, che danno il meglio – se il benessere porta Ed Sheeran e George Ezra, ridategli la Thatcher, e se loro non la vogliono datela a noi, ché verosimilmente, tanto male non può fare.