È un momento fantastico per capire la musica, anche se non sembra. Perchè è diventata preziosa. Perché sta prendendo una nuova strada lontana da quello che ha tenuto unita l’idea di musica per decenni (se non secoli).
Questo non implica che ci sia da esultare. Anzi, se avete la sensazione che da tempo la musica che vi piace stia perdendo la partita, è probabile che sia qualcosa di più che una sensazione. Vorrei tentare di spiegarlo con i due n.1 della classifica dei più – per così dire – venduti. Caparezza tra i presunti album, e Mi gente di J Balvin (colombiano di Medellin) e Willy William (francese sulle cui origini non trovo certezze: Etiopia, Guadalupe, Giamaica?) tra i presunti singoli.
Mi gente si contraddistingue per una sequenza ripetitiva di cinque note che paiono emesse da un’otaria malata; accompagnano l’ascoltatore senza sosta dall’inizio alla fine, e sono l’unica idea forte del brano. Parlo di idea musicale, perché poi naturalmente ci sono altri concept essenziali, come le immancabili immagini di barrio e di cabezas che si muovono a tiempo di reggaeton, il carro globale sul quale anche le nostre popstar non trovano sconveniente saltare. Vi potrebbe sorprendere il fatto che a differenza di Despacito non è un brano porcellazzo: “Mis letras son sexys, pero no vulgares. No hay necesidad de hacer música vulgar” (che è una frase carina da dire). Il giovane Balvin ha tra l’altro sovrapposto una rivendicazione politica anti-gringos al ritmo tanto deprecato: “Mi música no discrimina a nadie”, recita il testo.
Ma torniamo a quelle cinque note. Mi, Sol, Si, Fa diesis (due volte).
È una sequenza che, isolata, è molto triste. Ve la dico tutta: se provate a suonarla al piano, avrete una impeccabile marcia funebre.
Sono abbastanza sicuro che sia in Mi minore, che è una chiave malinconica tra le più frequenti. Chopin la amava molto, se fossi capace farei un mash-up col suo Notturno in Mi minore; anche Scarborough fair, Hey You, Nothing else matters sono in Mi minore. Quello che sto tentando di dire è che questa canzone evoca una festa globale che ruota attorno a una tristezza martellante.
Sono quasi certo che l’espediente sonoro sia di Willy William, che lo aveva già sfruttato nella sua Ego – forse la ricorderete, è quella che sembra esultare: “Allez! Allez! Allez!”, ma si sviluppa da una frase elementare estremamente malinconica al carillon, pompata fino a esasperarne la doglianza.
Diciamo che non siamo dalle parti di All night long di Lionel Richie.
Anzi, è come se il moderno concetto di party globale andasse in direzione di una tristezza circolare, insanabile (…il concetto fatto proprio anche da Alors on danse di Stromae, e potrei farmene venire in mente altri ma questo articolo è già abbastanza lungo e voi non avete tempo).
Ora: c’è qualcosa negli accordi in minore e nelle scale in minore che nemmeno i musicologi quelli veri sanno del tutto spiegare, sì sono tristi ma PERCHE’ sono tristi? Perché si sente che gli manca qualcosa, manca un pezzetto rispetto ai corrispondenti in maggiore? Eppure per qualche motivo il mesto gusto del minore crea quello stesso effetto dello zucchero nelle bevande gassate, quell’ingrediente che non ti toglierà mai la sete ma ti spingerà a berne ancora.
Ebbene, togliendo a Mi gente l’idea forte delle cinque note strazianti non avremmo un brano che alla hénte non basta mai, che va verso il miliardo di visualizzazioni su YouTube, che è entrata (alta) in top 10 in Austria come in tutto il Sudamerica, in Svezia come in Romania, in Irlanda come in Repubblica Ceka, in Portogallo come in Germania, ed è stata mandata addirittura al n.5 delle charts dagli schifiltosi britanni.
Ma occhio a una cosa.
Mi gente non è cantabilissima.
Come non è cantabile Caparezza.
In parte, è una specie di rivalsa dei non musicali, quelli che vi passano di fianco con il finestrino abbassato e l’autoradio a volume tellurico sul pezzo tamarro – ma anche di coloro che, in odore di punkismo facilone, aborrono qualsiasi cosa abbia più di tre accordi sentenziando che ciò che è diretto e urgente e di pancia eccetera non può avere troppe note.
Invero oggi pochi musicisti cercano nella musica, nel tessuto delle note qualcosa che spiazzi loro per primi. Lo cercano più spesso nel ritmo, nel groove, in un suono contemporaneissimo con un misurato spruzzo di modernité. Nel gimmick, nel meme, la frase o l’immagine da replicare in migliaia di tweet ossequiosi. Nel gorgheggio fintamente ispirato, la piroetta ginnica su una pedana pop prudentemente imbottita.
Caparezza, che ha pubblicato un album notevole, spesso sbalorditivo, non smentisce tutto questo.
Prisoner 709 lascia per strada quasi tutto il rap Troppo politico sul quale ironizzava. È molto personale, ma soprattutto è labirintico – tra l’altro, il labirinto rientra anche dal punto di vista acustico, visto che uno dei fantasmi che si aggira tra i 16 brani è l’acufene che lo tormenta.
L’album sembra concepito dal James Joyce di Finnegans Wake. Come la funambolica veglia funebre,”suprema sintesi del creato” concepita dal verboso irlandese, è pieno di idee, di citazioni, giochi verbali, esplosioni di senso, associazioni oggettivamente geniali. È quasi impossibile coglierle tutte, anche i tanti devoti chiosatori che ci hanno provato, per esempio su Genius, si perdono un po’ di cose, ne azzardano altre piuttosto ardite (“Vai via, Eins Zwei Drei Vier – qui Caparezza gioca con la somiglianza tra Vier, Quattro in tedesco, e Fear, paura in inglese”) (“L’espressione Braccio del 1210 è un gioco di parole tra il braccio della puntina del giradischi Technics e il braccio della prigione: infatti il 12/10/33 il generale Cummings proclamò la costruzione del più grande e più sicuro penitenziario federale americano nell’isola di Alcatraz”). Si accapigliano su certe altre, si diffondono sulla struttura numerologica (ogni brano ha anche due titoli alternativi contrapposti, uno da 7 lettere e uno da 9). Va a finire che forse lo si apprezza più con il manuale di istruzioni come Mulholland drive. Sta di fatto che preferisco non fare la consueta, mesta selezione personale di rime che si trova in ogni maledetta recensione rap, perché davvero non renderà mai l’idea: un po’ come Caparezza, mi arrendo frustrato: “Il testo che avrei voluto scrivere non è di certo questo”.
Però approfitto bassamente di una frase, sempre riferita all’acufene: “Il suono del silenzio a me manca più che a Simon e Garfunkel”.
Ecco, quando ascolto Prisoner 709, qualcosa manca anche a me. Ed è la musica. Fatta eccezione per due, tre brani, Caparezza riempie ogni spazio proprio come la maggior parte degli hitmaker contemporanei: l’ascoltatore del 2017 non viene mai lasciato solo con la musica, non si trovano tre note senza un intervento vocale di qualsiasi tipo (“Uh!” “Yeah!” “Haha!” “Owoowooh!” “Darkpologheeeng”); evidentemente 5 secondi senza fonemi vengono considerati prog.
Sicché Prisoner 709 è bello da leggere, faticoso da ascoltare. Non è esente da colpe la voce di Caparezza, un po’ meno Eminemiana ma ancora lontana da quella vera (che compare invece nell’intro – sembra addirittura Marracash). Ma tendenzialmente concede poco alla musica. Per esempio Forever Jung, un pezzo sul rap con ospite DMC (quello che non è RUN) è impeccabile e geniale – eppure non mette una gran voglia di sentirlo una seconda volta: strappa un tipo di ammirazione intellettuale tipo le simmetrie di Wes Anderson.
Si intuisce, ma proprio sforzandosi, una voglia di funky vintage e di rock. Ma vengono subissati dalle parole, come se Caparezza si negasse questa voglia, scatenando la lingua come fosse costretto a rappare, come fosse più forte di lui. Penso che sia così. E gli riconosco di aver fatto un album magistrale.
Ma faccio fatica ad ascoltarlo per un’ora, è più forte di me. Evidentemente anche il mio orecchio, come il suo, ha delle colpe.
Oltre a Caparezza al n.1 ci sono i Foo Fighters al n.2, Rkomi al n.3 e udite udite, addirittura Madonna al n.4 col nuovo robo dal vivo, nonché Fred DePalma n.5.
La dittatura rappusa di quest’estate incassa ma non molla e si accomoda subito dietro: GuéPequeno e Ghali e Coez restano in top 10 anche se Mostro carambola dal n.3 al n.16.
Ma se tutto cambia tra i sedicenti album, ecco che nel mondo dinamico e supergiovane dei singoli, lo sbarazzino esercito delle generazioni W e Z e rimane avvinghiato ai tormentoni estivi come se fossero in spiaggia a fare i cretini invece che a scuola col golfino (a fare i cretini). Il regghetòne di Mi gente ascende al n.1, il regghetòne #Senzapagare slitta al n.2, lo spot Invicta e Sammontana e Rayban e Atala (aka “Riccione”) resta al n.3, la monnezza di Baby K è al n.4, insomma non moriremo democristiani, non moriremo berlusconiani, ma moriremo tormentoni.
Paolo vorrei conoscere il tuo giudizio su Chris stapleton che ha sfasciato le classifiche USA ,,,,,
Se ti interessa qui c’è una delle rare recensioni fatte in Italia http://www.rockol.it/recensioni-musicali/album/7172/chris-stapleton-from-a-room-volume-1