Per quasi tutto il mese ho temuto. Non c’erano polemiche.
Il che mi suscitava pensieri infelici: forse che i motivi per le polemiche, coi polemisti in vacanza, non esistono? Forse che l’universo, quando si abbassa la guardia di chi vigila, si mette a rigare dritto perché in realtà l’universo è un narciso che reclama attenzione? Tormentato e atterrito, mi chiedevo se soffermarmi nuovamente sugli spasmodici dibattiti sulla grassezza di Mariah Carey. Potevo davvero ridurmi così? (beh, sì) (ma il resto dell’articolo?)
Ma poi, sul finire del mese, che splendore. Guardate solo gli ultimi due giorni. Rovazzi accusato di aver plagiato – per la canzone che accompagna lo spot delle Big Babol – un brano del 2012 de I Mostri, Questa è la mia città. I due pezzi si somigliano parecchio. Certo, se sul pezzo dei Mostri cantate “Essere o dover essere, il dubbio amletico”, somiglia anche a un’altra roba. Devo confessare una cosa: sui plagi io sono incautamente garantista. Perché se il pop e il rock stanno riducendo drasticamente il numero di note – per l’entusiasmo dei produttori, dei critici e dei likethistrythat sparsi ovunque – temo che sia inevitabile un futuro di canzonette tutte uguali, tendenti alle due note (perché 3 saranno considerate “ampollosa magniloquenza prog”) e di opinionisti deliziati dal sottile citazionismo. Intendo dire che se si stabilisce per tacito accordo che nel vocabolario italiano ci sono troppe parole, e in fondo si può comunicare con molte meno, tipo 200, gradualmente tutti diranno cose che si somigliano smaccatamente, e niente zio, cioè ciaone, tipo che la gente stammale, e quindi bene ma non benissimo, però LOL.
Mi sembra strano – in effetti, mi sembra fin troppo bello – che nello staff di Rovazzi qualcuno abbia sentito la canzone de I Mostri, ma in fondo che ne so. Mancano le prove. Certo, non è mai un vero argomento contro una buona polemica. Per esempio: Niccolò Fabi smentisce il suo addio alla musica, voce circolata in seguito a un’intervista a Roberto Pavanello de La Stampa. “Non fidatevi dei titoli”, conclude Fabi. Il titolo dell’articolo è “Per Lulù trasformo il dolore in una festa che fa del bene”. Non mi sembra equivocabile. O è stato cambiato? Non ho le prove, e anche se mi pare di capire che Pavanello tiene alla Juve, sarò garantista pure per lui. Ma parlando di processi, eccone uno.
Inseguendo una libellula in un prato, Giulio Rapetti in arte Mogol vuole 8 milioni di euro dalla vedova e i figli dell’amico Lucio, e il tribunale gli ha dato in parte ragione, condannando la società della famiglia Battisti a pagargli 2.651.000 euro; lui intanto ha chiesto il pignoramento dei beni della società, che si chiama Acqua azzurra (“Nei tuoi occhi innocenti posso ancora ritrovare il profumo di un amore puro”). La cosa curiosa è che la polemica non c’è stata. Vedete, per generare una polemica danzante, uno dei due contendenti dev’essere più simpatico dell’altro. In questo caso quello simpatico è morto. Forse il grosso degli opinionisti è più dalla parte di Mogol, ma sospetto che dipenda dal fatto che la sua vittoria significherebbe l’approdo dei successi battistiani a YouTube, Spotify e compagnia streamante. Per capirci, un anno fa su Repubblica una lettera aperta di Gino Castaldo a Grazia Letizia Veronese la accusava: “Le canzoni di Lucio Battisti, fosse per Lei, dovrebbero scomparire, non essere cantate da altri, non raccontate, non esaltate come meritano”. Questo è un punto interessante. Sono sparite, le canzoni di Battisti, per il fatto di non essere sulle piattaforme? Sono meno valorizzate? Dobbiamo rimpiangere che non ci sia una Fondazione Battisti come la Fondazione De André e la Fondazione Gaber? Le giovani generazioni – per le quali indefessi ci battiamo – sono cresciute in anni anabattisti: questo ne spiega le difficoltà? Mi sbilancio: le canzoni di Battisti, sottratte alla conta dei clic, sono invece rimaste anche se come i libri di Farenheit 451, raccontate da tutti noi a modo nostro, chi citando una strofa in un post, chi mandando un brano per radio, chi ascoltando vetusti supporti da solo o in compagnia della progenie. Io do soldi a Spotify e sono contento che esista, ma il mio interesse di naturalista tifa per la diversità delle scelte della vedova Battisti.
In fondo tutto quanto, là fuori, è una battaglia contro la povertà. Taylor Swift per esempio ne conduce una contro quella dei suoi fan, dando loro incentivi per diventare più ricchi: chi può permettersi di spendere più soldi nel suo merchandising avrà più possibilità di vederla in concerto. A me sembra tutto coerente, le popstar non sono vostre amiche e vogliono quel danaro che siamo così stupidi da non impiegare in modo più verosimile. In ogni caso la posizione di reproba che le è stata assegnata pare aver portato qualche punticino a Katy Perry, dopo che la faida tra le due è stata rilanciata con entusiasmo nel nuovo video Swiftiano, con tanto di imitazione. Ma naturalmente stiamo parlando dei neutrali: una popstar è come una squadra di calcio: nun se discute, se AMA. Forse quindi non amiamo Rita Pavone? Cinquant’anni dopo che Umberto Eco, smaccatamente invaghito, pindareggiò su di lei?
“Il fascino della Pavone stava nel fatto che in lei quanto sino ad allora era stato argomento riservato per i manuali di pedagogia e gli studi sull’età evolutiva, diventava elemento di spettacolo”. (da “Un mito generazionale”, ne La canzone di consumo, 1965). Nel 2017, Rita Pavone è una signora – incidentalmente, juventina – che probabilmente giudica Salvini stupidamente moderato e ritwitta da Lugano, Switzerland, chiunque abbia da ringhiare contro africani e musulmani. Questo, oggi, diventa guardacaso elemento di spettacolo – specie nel momento in cui è tra i tanti che ritwittano la bufala sugli ambulanti eclissatisi dalla Rambla prima della mattanza di Barcellona. Ma se per Rita la Zanzara una modalità (credo involontaria) per rientrare al centro dello spettacolo è inveire sui social contro i negri e la Boldrini, allora a maggior ragione si capisce perché lo faccia Salvini. O Paolo Giordano del Giornale.
Che poi la cosa buffa è che più di un amico mi ha scritto “E dire che sembrava il più sensato fra i tre tromboni”, con riferimento alla crema cremosa dei quotidianisti che danno il loro contributo ad Amici di Maria De Filippi. Forse però se uno scrive per un quotidiano che ogni giorno sbraita contro i luridi buonisti, alla fine è difficile che non sia allineato, no? Anche in tempi in cui anche da (pardon) sinistra siamo tutti invitati a non sputare nel piatto dove mangiamo per quanto sia cucinato in modo rivoltante. Io mi limito a soggiungere che Giordano è juventino (ma lo dico così, eh). E che gli insulti cui è stato sottoposto in difesa della Boldrini sono sconcertanti quanto il suo post originario. Ma mi allarmano anche quelli che gli dicono “Torni a occuparsi di musica”. Preferisco si occupi della Boldrini.
Che poi, di politici di rango ne sono rimasti pochi, e di rado gli artisti riescono a fidarsi di loro. Per fortuna ci sono eccezioni come Lenny Kravitz.
Uno che la politica se l’è portata a letto è Gué Pequeno. Però non credo si possa dire che c’è stata polemica nei suoi confronti in occasione del video in cui si trastullava con il suo pirulino pensando che a vederlo fosse solo la sua amica. Per me lo scandalo è che non sia saltata fuori l’identità di lei. Non credo sia la Boldrini, né Rita Pavone.
Chiudo con altre polemiche che non ce l’hanno fatta: 1) Ryan Adams che definisce Josh Tillman/Father John Misty “il più grande stronzo presuntuoso sulla faccia della terra”. Mi sembra una valutazione esagerata dell’importanza di Father John Misty. 2) uno o più babbei in platea per Richard Ashcroft che rivolgono insulti omofobi a Perfume Genius al TODays di Torino. Che poi fatemi il piacere, siete fan di Ashcroft, mica di Axl Rose. 3) Vacchi che balla, Vacchi che fa un dj set, Vacchi che fa cose. 4) Rihanna grassa. Ah, ma su. L’ennesima wannabe che vorrebbe essere Mariah Carey.