AMARGINE

The Artist Formely Known As TheClassifica, Ep. VI: Depeche Démodé

Potremmo farla breve, e sciogliere subito l’assemblea per risparmiare tempo. Potremmo, forse dovremmo sintetizzare tutto in una frase: non c’è nessuno spunto musicale in Spirit dei Depeche Mode – inevitabile n.1 in classifica in questa settimana – che un blando estimatore del gruppo non abbia già sentito, in una forma migliore, in album precedenti. Fine. Torniamo tutti a fare quello che stavamo facendo. Chissà cos’era.

Però non è così semplice, perché una cosa che non può essere sottaciuta è che Spirit dei Depeche Mode è un disco terribilmente immusonito, bilioso, sfiduciato nel genere umano e nei tempi che corrono, e così incapace (volutamente?) di guizzi sonori che sembra co-firmato dal Roger Waters di Animals (cioè il disco dei Pinfloi che tendenzialmente non vedete mai in classifica. E non a caso).

Potrebbe persino profilarsi una specie di antipatico ricatto. Ovvero: liquidando Spirit come greve e noioso si sposa una robusta tradizione di critica musicale internazionale che esorta l’artista a non rompere le palle con “the serious stuff”, che in fondo suvvia, chi fa i soldi coi dischi come si permette di giudicare le masse, dir loro “Siete una delusione”? Si dedichino a fare i giullari, che sempre allegri bisogna stare.

(…beninteso, i Depeche Mode allegri lo sono stati forse una volta sola in Just can’t get enough, che è un pezzo di Vince Clarke e non certo di Martin Gore)

Oppure, peggio: sminuire un disco che si porta dietro tutta ‘sta gravitas, equivale a stabilire un rapporto univoco tra riflessione sul mondo e pesantezza musicale? Rapporto che pure, parrebbe smentito dal già citato e sempre da citare Roger Waters di The dark side of the moon (cioè il disco dei Pinfloi che vedete SEMPRE in classifica. E non a caso).

Spiegazione sbrigativa ma di un certo effetto

Nella Mia Umile Opinione, quando Alan Wilder se n’è andato (non proprio ieri) dal gruppo, si è portato via un po’ dei colori con cui Martin Gore dipingeva, e per quanto i segnali di impoverimento fossero visibili già vent’anni fa, ora siamo ai tentativi di fare affreschi con il carboncino.

Versione lunga, e oltremodo pindarica (…che speravate di evitare)

Forse è un problema anagrafico. Che pesa molto più sui suoni – e sui ritmi – che non sui temi del disco. Affé mia, quando fai canzoni, il modo in cui dici le cose è fondamentale. Se non riesci a dirle in un modo che meravigli chi ascolta, allora non hai tenuto fede all’ottimo motivo per cui in questi anni ti abbiamo messo lì, su quel vezzoso pulpito.

E per contro, Everything counts era una riflessione sul mondo, come anche People are people. Perbacco, anche Blasphemous rumours era una riflessione sul mondo, e una delle più gramissime che io abbia mai sentito – in confronto, Nick Cave è un allegrone. Ma Spirit manca completamente di passione, di voglia, di comunicativa. Di quello slancio che una rockband affida a un riff di apertura (e i Depeche Mode hanno nella loro cache più riff di tante rockband, e forse proprio questo ha permesso la loro sopravvivenza negli 80 e nei 90 e negli 00. Forse erano una rockband travestita). Di quella spinta che porta il poeta, financo quello che ha preso il Nobel, a dare alle sue parole un pezzo cantabile, ritmato – almeno uno per album. Qui l’unico potenziale singolo in linea con la storia dei Depeche Mode (e si tratta comunque di un pezzo che tempo addietro sarebbe stato un riempitivo) è So much love. Sta in fondo alla tracklist, dove di solito su Spotify gli ascolti si sono diradati. Capite, sembra che se ne vergognino.

Spirit non ha alcuna rispondenza con quello che vibra intorno (buono o pessimo, mainstream o nicchia). A tratti sembra persino rifiutare, per rigetto, la mission elettronica della band, e questo proprio quando l’elettronica è al governo ovunque e chi non vi inneggia pubblicamente viene blindato per strada e costretto a bere cristalli liquidi. La circostanza in fondo confermerebbe l’idea che erano una rockband travestita. Sarebbe bello però dire che Spirit è fatto a suo modo perché è un disco spericolatamente originale. La verità tanto banale quanto difficile da accettare per molti di noi è che sia Gore che Gahan sono fuori pista. Momentaneamente senza benzina, senza direzione, senza vere motivazioni. Pensavamo di no, ma doveva succedere.

Nella musica più che nelle altre arti, mantenere una consistenza duratura è l’eccezione più che la regola. E malgrado i DM siano nello strettissimo novero di coloro che erano riusciti a rimanere rilevanti per più decenni, pare proprio che la fase di pieno regime dello streaming stia sferrando un attacco molto deciso alla retromania. Per i veterani l’acqua è poca, e la papera non galleggia. Tra i pesi massimi degli anni 80, i più scaltri si sono chiamati fuori per tempo (Peter Gabriel, David Byrne, Mark Knopfler, Robert Smith); altri hanno cercato di dissimulare la discesa battendo strade spiazzanti (Sting che incide madrigali suonati al liuto per Deutsche Grammophon – sono passati dieci anni e non so ancora darmi pace, è come vedere Totò diretto da Pasolini: nessuno ci va a guadagnare) o giocandosi la reunion (sempre Sting. Caso di studio se ce n’è uno). Altri, baps! – sono morti. I pochi che erano riusciti a rimanere tanto a lungo in corsa, come Madonna, U2 o Depeche Mode, sono oggettivamente senza benza. Ma questo non vuol dire che non possano riprendere a girare. Forse il segreto è il rifornimento.

Resto della top ten. Non succede molto: Ed Sheeran scende al n.2, Mina&Celentano risalgono al n.3. Esce immediatamente Lo Stato Sociale (dal n.6 al n.13), mentre riappare al n.4 MiticoVasco con la megaraccolta a prezzo d’occasione. Poi ci sono i ComunistiColRolex, Ermal Meta, TZN Ferro, Fabrizio Moro (dal n.2 al n.8, ma pur sempre in top ten, via), Gigetto D’Alessio e Michele Bravi.

Altri argomenti di conversazione. Entra solo al n.14 l’artista che negli Usa è il dominatore assoluto dell’ultimo biennio, Drake. La mia teoria complottistica è che giacché in Europa le case discografiche le comandano i britanni, sfido io che i pochi album stranieri che si vendono in Italia sono sempre e solo inglesi (…vado a memoria, mi pare sia da cinque anni che un americano non compare nella top 20 annuale dei più venduti) (Drake peraltro è canadese, d’oh!) (come tanti altri che si stanno giovando del crescere in ambiti protetti, eventualmente svedesi, invece che esposti alle temperie del grande abisso che c’è tra Los Angeles con la sua catena di montaggio delle hit e New York con la sua fabbrica di hype). Comunque il n.14 di Drake è bassino se teniamo conto che in settimana sono usciti pochissimi dischi. Uno di questi è Purple haze (uh!) di Entics da Milano Baggio, che dopo gli anni in cui entrava direttamente in top 10 oggi si presenta con un n.48. Scrivessi per un certo giornale ci farei di corsa il titolo: “Il rap è finito”. Però mi pare strano che debutti così male, magari non ha ancora iniziato gli instore. Chiudo questa sezione ricordandovi che il disco da più tempo in classifica è la raccolta di TZN Ferro uscita alla fine del 2014. Vi ricordate la fine del 2014? Tutte quelle polemiche sinuose. In verità sto dicendo così per amor di caratterizzazione, non ne ricordo una, ma sicuramente c’erano pignatte di polemiche, mica come oggi – ah, la prima metà del decennio, che evo di maliardo candore che non tornerà più. E a proposito:

Miglior Vita. Dodici album in classifica sono di artisti o gruppi guidati da artisti che hanno lasciato questa valle di donne dell’Est. Li guida, come è giusto che sia, Nevermind dei Nirvana (quelli di Kurt Cobain – pensate, si è sparato), che questa settimana passa dal n.43 al n.49, si vede che è un po’ giù. E a proposito di essere giù,

Pinfloi. The dark side of the moon – lo ricorderete certamente – girava al n.33 la settimana scorsa. E lì lo ritroviamo! A riprova che il mondo cambia, nella vita gli amici entrano ed escono come camerieri nella sala di un ristorante, ma vi sono cose che troveremo sempre lì a sostenerci come un ponte su acque perigliose. E in tutto questo, Wish you were here perde dieci posizioni, The wall ne guadagna nove, sicché eccoli lì al n.59 e al n.60, quasi appaiati, e forse lo sono!, non esiste la posizione 59emezzo, ma mi piace pensare che proprio lì essi si incontrino come Venere e Marte.

3 Risposte a “The Artist Formely Known As TheClassifica, Ep. VI: Depeche Démodé”

  1. Ottima theClassifica, sostenuta da una tesi efficace e con belle battute… Non scrivi più per riviste di musica Madeddu?

  2. Grazie, Rand. No, mi hanno fatto gentilmente capire che stanno meglio senza di me. 🙂

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