Ieri mi è apparso per la prima volta Guccini. Per me è stato molto interessante, perché io, forse per motivi generazionali, l’ho sempre un po’ sottovalutato. Anche quando ho scritto delle cose piuttosto cruente su di lui, ne ho sempre parlato come se non fosse un bersaglio grosso, ma fosse meno rilevante di altri suoi colleghi. Poi se vi interessa provo ad abbozzare un paio di ragioni, giù in fondo. Ma prima, per riparare in un certo senso a questo errore di valutazione
(e per mettere da qualche parte le cose che ha raccontato, essendomi preso la briga di trascriverle)
vorrei ospitare alcune delle (tante) cose che ha detto ieri Guccini, nel presentare il suo nuovo cofanetto di cd e il suo nuovo libro all’osteria Moretto di Bologna (da lui identificata come “l’osteria di fuori porta” che gli ha ispirato uno dei suoi pezzi più importanti). Seduto davanti a tutti dietro a un tavolo come se fosse in cattedra. Però la cattedra di un’osteria.
1. ENTRATA IN SCENA
“Mi chiamo Francesco Guccini. Sono nato nella prima metà del secolo scorso. Sono ancora vivo”.
2. BATACLAN
“Nel cofanetto ci sono molte versioni inedite, tipo un’Avvelenata in versione rap buttata lì qualche anno fa, più due pezzi mai pubblicati. Uno è una canzone che avevo completamente dimenticato, si chiama Allora il mondo finirà, è del 1967, una fase in cui c’era paura della guerra atomica, i missili a Cuba. Questa canzone è sorella di Noi non ci saremo e Un vecchio e un bambino, che è più postatomica che ecologica come hanno pensato in tanti. Ma non credo che quella paura sia simile a quella per i fatti di Parigi. Quelli li commenterei con una canzone per me più adatta, Libera nos Domine, che alla fine se non sbaglio dice: Dai preti di ogni credo da ogni loro impostura, da inferni e paradisi e da una vita futura, da utopie per lenire questa morte sicura, da crociati e crociate da ogni sacra scrittura, da fedeli invasati di ogni tipo e natura libera, libera, libera, libera nos, Domine. Chi ha un’ideologia talmente forte che non accetta dialogo e confronti, non ha dubbi, si fa sparare. Pensano di andare in paradiso non so con quante vergini a disposizione. Non c’è possibilità di dialogo, senza il dubbio si ha un’ideologia feroce che cancella le menti, mentre io il dubbio l’ho sparso a piene mani. Non ho mai detto: domani succederà. Ma sempre: forse, boh”.
3. HO FATTO DUE CONTI
“Facevo il giornalista alla Gazzetta dell’Emilia. Non è che succedessero molte cose, quei bei delitti di oggi. Non c’era molto da raccontare, qualche piccolo furto, incidenti. Non c’era il giorno libero, lavoravo fino alle tre del mattino, ero precario e prendevo 20mila lire al mese. Ma una volta che mi presi una settimana di ferie, mi pagarono 10mila lire. Allora incontrai Alfio Cantarella, poi batterista dell’Equipe 84. Lui faceva il fattorino ma suonava anche in un complesso che faceva musica da ballo in un complesso chiamato Marino’s, col genitivo sassone. Mi disse che cercavano un cantante-chitarrista. Gli chiesi quanto guadagnavano. Ho fatto due conti e sono entrato nei Marino’s”.
4. MA NON VOLEVO FARE IL CANTANTE
Il panorama musicale è cambiato completamente. Così come è cambiato quando ho iniziato io, dal girare per le sale da ballo a fare i dischi. Il mio primo LP Folkbeat n.1, un titolo orrendo ma non per colpa mia, credo vendette sei copie. E pensavo che tutto sarebbe finito li. Invece due anni dopo alla EMI arrivò un nuovo direttore artistico perché si cambiavano come gli allenatori nel calcio – e mi chiese se avevo abbastanza pezzi per un nuovo disco. Così uscì Due anni dopo, anche quello non vendette niente. Nel 1970 un ulteriore direttore artistico mi chiese se avevo pezzi, e feci L’isola non trovata. Infine feci Radici, quello con in copertina i bisnonni paterni, che fu il primo che ebbe un certo successo. Ma allora una casa discografica che aveva qualche personaggio che andava bene – in un’epoca in cui i dischi d’oro erano per chi vendeva un milione di copie, non 50mila – poteva permettersi il lusso di far incidere dischi a chi non vendeva tanto ma meritava fiducia. Addirittura è andata a finire che sono l’unico rimasto nella stessa casa discografica per tutta la sua carriera. Oggi anche quando i ragazzi vincono i famosi talent show, se funzionano, bene. Ma se non funzionano spariscono. Mi sembra che sia un modo di favorire delle illusioni perché molti vogliono fare il cantante da grande, cosa che io tutto sommato non volevo fare. Anche perché c’era un’educazione familiare di un certo tipo. Dicevo: faccio il cantante, mi rispondevano: va bene, ma cosa vuoi fare? Non era considerato un mestiere. Anche quando tornai col primo contratto, centomila lire al mese per l’esclusiva dei pezzi che scrivevo, ed era una bella cifra, mio padre mi disse: sì, ma quanto durerà? C’era sempre il cosafaraidagrande. Mi sono convinto solo al quarto disco che stavo facendo questo per vivere. E anche i concerti ho iniziato a farli un po’ tardi. Prima cantavo giusto all’Osteria delle dame”.
5. CANZONI INUTILI
“Due anni fa ho fatto l’ultimo disco, con un titolo cui pensavo da tempo, L’ultima Thule, e ho deciso di chiudere, basta. Perché i primi anni le canzoni mi uscivano con grande facilità, non mi sono mai trovato a dire: oddio devo fare un disco e le canzoni non escono. No, venivano quando avevano voglia, quando avevo cose da raccontare, quando c’era un fatto che mi colpiva. Sentivo colleghi che dicevano: ora devo stare chiuso un casa un mese per scrivere i pezzi del nuovo album. A me all’epoca non capitava. Però ultimamente facevo fatica, tra i miei ultimi due dischi sono passati credo cinque anni. E di fatto oggi non suono neanche più la chitarra, non ho più i calli sui polpastrelli, non ascolto più musica. In macchina ogni tanto mia moglie mette su un cd e io dico: Per l’amor di Dio… Il fatto è che sento tante canzoni inutili. Comunque anche le mie canzoni, risentirle mi dà un certo fastidio, quando in un ristorante per farmi un omaggio ne mettono su una delle mie io dico: No! Grazie”.
6. LEGGERE E SCRIVERE
“Ho smesso di cantare e suonare ma non di scrivere. Stiamo già progettando il terzo libro giallo con Machiavelli. Scrivere mi piace ancora, ho molte cose da dire e mi diverto molto. Forse nella scrittura di romanzi e racconti sono ancora abbastanza fresco. Il mio primo romanzo, Croniche epafaniche, l’ho scritto se non sbaglio nel 1989, sul computer. Lo avevo comprato nei primi anni 80, era grosso come un tir ma col motore di una 500. Poi sono passato a un piccolo mac, comunque da allora ho sempre scritto col computer – ma non le canzoni no, per scriverle ho sempre usato carta e penna. Allo stesso modo, ho smesso di ascoltare musica ma non di leggere. Però ho un problema alla vista, per cui faccio molta fatica a leggere, ho bisogno di un apparecchio che mi ingrandisca le parole. In ogni caso sono tuttora un grande lettore: narrativa, saggi, tradizioni popolari, ultimamente molti gialli, molta storia medievale anche”.
7. L’AVER SCRITTO CANZONI
“La canzone per me è sempre stata più difficile della pagina scritta, perché nella scrittura puoi usare più pagine, raccontare, tirar via. La canzone deve essere sintetica. Anche se ci sono canzoni-fiume che durano nove minuti, deve condensare tutto in strofe, in rime, assonanze. Pur essendo più difficile dà molta soddisfazione cantarla, farla sentire agli amici, e poi metterla in un disco. E pur essendo più difficile, l’urgenza delle prime canzoni era fantastica: scrivevo liscio, in brevi periodi di tempo. Pensavo a un argomento, mi mettevo lì con la chitarra, provavo un giro di accordi e mi venivano le prime parole, dopo era abbastanza facile andare avanti. La locomotiva, come ho raccontato mille volte, sono tredici strofe scritte in venti minuti, forse mezz’ora, è venuta fuori proprio come un treno. Altre canzoni invece prendevano più tempo, scrivevo e mi fermavo, poi magari dopo un anno o dieci mi tornava in mente e la finivo. Le ultime canzoni non le ho quasi mai scritte lo stesso giorno, quasi mi stancassi, facessi fatica a completarle. Oggi non mi metto lì, non ho nessuna voglia di fare canzoni. Anche se gli argomenti ci sarebbero. Ma non ho più quel desiderio di raccontare con una canzone”.
8. FORSE UNA RABBIA ANTICA, GENERAZIONI SENZA NOME
(questo a dire il vero è un estratto dal libretto di commenti alle canzoni incluso nel cofanetto)
“Pochi giorni dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, mi chiesero se me la sarei sentita di cantare ancora una canzone che in qualche modo mitizza un attentato. Risposi che c’era una grande differenza tra i due avvenimenti perché quel gesto anarchico, anche se non apprezzabile, era figlio di un impulso individualista, non organizzato né pianificato, privo di ambigui appoggi esterni. Anch’io avevo simpatie di tipo anarchico ma non da militante: il mio era più che altro un punto di vista letterario e romantico”.
9. ETA’ DELL’ORO
“Sono convinto di aver vissuto una specie di età dell’oro. Sia per quello che ho visto crescendo, per il mondo e le persone che non esistono più e ho avuto la fortuna di conoscere e raccontare nei libri, l’appennino negli anni 40 e 50, la civiltà contadina, i miei nonni che macinavano il grano col mulino. Ma anche nella musica. Prima di me c’era stata la generazione dei cosiddetti genovesi, che poi magari non erano di Genova come Tenco, Paoli, Fidenco. Loro scrivevano quasi solo canzoni d’amore, bisognava passare a un genere diverso. De André lo aveva fatto prima di me, con ispirazione più che altro francese; io sono arrivato alle sue spalle con qualcosa di nuovo, se ci pensiamo Auschwitz è stata diversa come canzone, e non nasce per caso, nasce perché avevo sentito altra gente quasi passata inosservata, per esempio le Cantacronache, poi c’era Dylan che esplodeva in quegli anni lì. Ma adesso si fa fatica, tutte le cose sono state già dette e già fatte. Oggi ci sono tante copie. Il sospetto è che ricalchino qualcosa di già sperimentato. Non è neanche colpa loro, arrivano tardi. Peraltro non è detto che una generazione di autori sia seguita da un’altra generazione, lo si vede nella letteratura, ci vuole qualcosa di nuovo, di veramente nuovo. Vinicio Capossela è l’ultimo che ho sentito che si è inventato qualcosa. Bravo, estroso, serio, colto. Ma il più è stato detto e scritto. Noi siamo stati fortunati tutto sommato per essere stati lì al momento giusto nelle condizioni giuste”.
10. RETROMANIA
“Quando sento dire una volta sì che ci si divertiva, dico sempre: non sarà che siamo cambiati noi? Purtroppo invecchiando non hai più lo spirito che avevi una volta, quando cercavi la gente e avevi bisogno di incontrarla. E anche in questo, sono stato fortunato”.
11. (…ora, considerazioni mie) (neutre) (almeno credo)
Guccini negli anni 80 non mi arrivava mai dalla radio, né da nessun posto. In quell’epoca gli altri cantautori decollati come lui negli anni 70 scalavano le classifiche (Dalla, DeGregori, De André, Bennato, Venditti). Lui oggettivamente no.
Curiosamente, nel mio liceo aveva una certa popolarità tra i ragazzi di imprinting cattolico. Ora, dopo un’immersione nelle canzoni del suo cofanetto, mi è anche parso di capire come mai: parecchi suoi pezzi sono pennellati di un tristissimo senso di morte e distacco dalla vanitas degli uomini – che talvolta esprime con malinconia, talvolta con insofferenza, talvolta con disprezzo. Forse ho fatto male a sottovalutare Guccini, e il suo ruolo nel cattocomunismo italiano (ma avrebbero dovuto mettermi sull’avviso i Nomadi, che in fin dei conti erano una sorta di suo satellite).
Cattocomunismo, ma con quegli slanci anarcoidi di ribellismo romantico, come giustamente dice lui stesso. Sì, c’è molto Guccini intorno a noi, ma non salta agli occhi subito.
(mi sento di precisare che nonostante le apparenze, non trovo niente di deprecabile nel termine – forse un po’ trito – cattocomunismo. Penso che descriva bene la nostra gente. Chissà, magari è una delle cose più originali che l’Italia abbia prodotto)
Ma tornando a Guccini, è interessante come i suoi libri abbiano una cifra stilistica molto diversa dalle sue canzoni. Sembrano scritti da un altro (per quanto appena possibile, accoppi qualcuno pure lì). Ma anche nella loro indulgente leggerezza verso il piccolo mondo antico (…Fogazzaro!) che evocano, rivelano una curiosa insofferenza per la propria vanitas di cantautore e del piccolo mondo antico della musica: Guccini potrebbe raccontarci con lo stesso stile letterario di manager, discografici, colleghi. Quel mondo lo ha soprattutto consegnato all’Avvelenata; nei libri mette, come se i suoi genitori o i nonni lo stessero ancora giudicando, le sue Radici. Quelle, sono degne di letteratura, mentre “questa gloria da stronzi” no.
Comunque, S.F. è morta, i bambini sono nel vento, lui si era ucciso per Natale, il treno pieno di signori ha fatto una brutta fine, Dio è morto e Andrea Pazienza pure e Noi non ci saremo – ma Guccini è ancora vivo. Ed è stato bello vederlo di persona, dai.
ecco perché Roots faceva schifo! cazzo, era un album di cover di Guccini!!!
“Se eri Guccione eri pieno di figa, sei Guccini e sei pieno di sfiga!” (Andrea Pazienza)