“Meno male che Marco mi ha tradita, altrimenti non sarei dove sono ora”.
(Laura Pausini, 2013)
Abbiamo una confessione da fare. Questo brano abbiamo dovuto includerlo nel libro praticamente per acclamazione del panel, a grande richiesta di tutti i nostri consulenti. In effetti, per le caratteristiche che vedremo, La Solitudine è il Giampiero Galeazzi della canzone depressiva: anche volendo, non la si può ignorare. Contiene tutto il ricettario della canzone piagnucolina, dal treno delle 7.30 (che è quello che Baglioni sta aspettando seduto su una panca fredda del metrò) alla fotografia nel diario. Ma è anche vero che si tratta di un brano che suscita un pateracchio di risate. Le parodie si sono sprecate, legioni di comici vi hanno attinto per dimostrare la propria efferata spassosità. Inoltre ha bollato per l’eternità tutte le persone di nome Marco, che almeno una volta si sono sentite dire: “Marco se n’è andato e non ritorna più”. Alzi la mano il Marco che è scampato al marchio di Marco.
(…se vi chiamate Marco e avete alzato la mano, siamo contenti lo stesso perché ora tutti attorno a voi vi stanno guardando, chiedendosi perché state leggendo un libro con la mano alzata come degli scardinati)
Il vero problema del marchio di Marco è che ai cantanti uomini è consentito fare un nome femminile e ripeterlo in litania. Non sappiamo se le Concette e le Erminie d’Italia abbiano anche loro trovato un menestrello, ma ne siamo pressoché sicuri, per quanto le Laure, le Marie, le Anne e Francesche sparse nello Stivale siano state per forza di cose chiamate in causa con maggiore frequenza. Viceversa, da sempre la cantante donna che declama un nome maschile genera ilarità e infinite sequenze di arguzie, da Renato di Mina a Stasera a casa di Luca di Silvia Salemi.
Certo gli autori del brano si mettono di buzzo buono ad accarnirsi su Marco, costretto dal padre ad abbandonare il liceo per andare a lavorare. DI lui sappiamo che ha gli occhi di un bambino un poco timido, sta rinchiuso in camera e non vuole mangiare (anoressia passeggera dimostrativa); stringe forte a sé il cuscino e piange. A dirla tutta, è il perfetto ascoltatore delle canzoni trattate nel nostro libro. A margine, vale la pena notare che ci troviamo in un pastrugno degno dei quadri di Escher, perché Marco è nelle condizioni ideali per ascoltare La Solitudine. E lo stesso vale per la sua amichetta, che se la canta e se la suona a scuola, con la cuffia nascosta tra i lunghi i capelli, intanto che la prof di matematica tenta di mettere in testa ai suoi studenti pelandroni qulle due o tre operazioni che sono bastate a Tremonti per diventare ministro. Nel contempo, di fianco a lei, il banco tragicamente vuoto di Marco già reca le prime scritte maramalde (“Marco suca” “Gobbi bastardi” “Pausini tettona” e altre istanze giovanili).
In questo quadro di impeccabile depressione adolescenziale si celano sviluppi futuri che rendono la canzone ancora più sconsolante. Se ci pensate, il fatto che Marco non vada più a scuola non è realmente un ostacolo alla storia tra lui e lei. Sarà viceversa un impulso per entrambi affinché realizzino i loro destini che, come il padre di Marco sospettava da tempo, erano a repentaglio. Era chiaro che lui, coi suoi occhi di bambino un poco timido, vagheggiava di iscriversi a Filosofia e diventare un depressissimo insegnante di liceo – oppure, peggio, un depressissimo cantautore indie – invece che uno stimato produttore di stuzzicadenti. Abbandonate certe idee frille, coi primi guadagni si è invece comprato un fuoristrada con il quale è andato a trovare non Laura, ma quella del primo banco (la più carina, la più cretina, cit.) con occhi di buzzicone affatto timido.
DIAGNOSI
Per gli ascoltatori occasionali non è niente di grave, si tratta di una blanda depressione studentesca, con la ricerca di un alibi per la propria apatia (“Studiare è inutile: tutte le idee si affollano su te”). Ed è evidente che il titolo è una bufala: la solitudine non tratta realmente di solitudine cosmica, di senso di isolamento dai propri simili. Ma per chi la ascolta in modo compulsivo si profila un Disturbo Dipendente di Personalità, ovvero la sensazione che la propria esistenza dipenda totalmente da qualcun altro. È un disturbo caratterizzato da una terribile paura della separazione (“distanze enormi sembrano dividerci”) e difficoltà nel fare o decidere anche la cosa più scema senza la presenza rassicurante della persona significativa. L’ideale seguito di questo brano, la quasi altrettanto celebre (all’epoca) Non c’è, interpretata da Laura Pausini nello stesso album di debutto, aggiunge al quadro la frase “anche in prigione me ne andrei per te”, tipica di un DDP (l’acronimo di disturbo dipendente di personalità) (non sapete cos’è un acronimo?) (siete Marco, vero?) (potete abbassare la mano, ora) per come descrive la sua inclinazione ad accettare anche situazioni ingrate per tenersi buono l’altro/a. In effetti molte storie d’amore non sono che dei DDP mascherati da TVTB (non conoscete neanche questo?) (siete il padre di Marco).
TERAPIA
Se il vostro problema è un DDP, avete bisogno di credere nella posssibilità di vivere autonomamente. Di rendervi conto che non è vero che siete inadeguati e incapaci di affrontare il mondo da soli. Okay, fondamentalmente lo siete, però se cominciate da subito a lavorare sulla vostra individualità, a riconoscere i vostri bisogni, ad affermarli e ad acquistare uno straccio di fiducia in voi stessi, il resto verrà da sé. Per farvi una pera di fiducia consigliamo il brano di Pino Daniele Yes I know my way, grazie al quale potrete affermare: “Yes I know my way, ma nun è addò m’aie purtato tu. Yes I know my way, mo’ nun me futte cchiù, tu vaje deritto e i’ resto a pere”. Se non capite cosa dice perché siete di Varese, ancora meglio: pensate a che botto autoaffermativo farete nel circondario parlando a questo modo.
(tratto da Da una lacrima sul viso, Paola Maraone e Paolo Madeddu, Kowalski Editore, 2006)