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(the Rolling Stone Files) – ALT-J. Intervista

(novembre 2012)

Quando Gus Unger-Hamilton entra nella stanza, pare voler chiarire a tutti che lui è il caponerd. Il suo sguardo, planando dall’alto della sua statura e del suo QI, non si posa sulla gente ma seleziona rapidamente la situazione che lo renderà più irresistibilmente snob. A differenza dello stropicciato batterista Thom Green, che si butta su un divano, del tondo Joe Newman, che se la chiacchiera quieto, o del sorridente biondino Gwil Sainsbury, che si tuffa a curiosare una collezione di dischi in vinile, Gus, dopo aver scannerizzato il locale con gli occhi, individua un’edizione paperback di American Psycho, la afferra, si siede e inizia a sfogliarla. E’ ovvio che non avrà il tempo di leggerla, tra un attimo ci sarà la session fotografica, ma lui ha già fatto uno statement personale più eloquente di un’intervista.

Un caso curioso, gli Alt-J. Col primo album An awesome wave, vincitore a sorpresa del prestigioso Mercury Prize, hanno ottenuto in eguale misura interesse e fastidio. Una band formatasi all’Università di Leeds, che ha fatto un disco che alcuni trovano aggraziato, altri pretenzioso. Quattro secchioni che fanno i carini con le armonie vocali, che giocano con ritmi e arrangiamenti. Che girano un video imperniato sulla Scuola di Atene di Raffaello per un pezzo il cui testo invita a “tassellare” geometricamente una relazione sentimentale. La comunità indie non ha apprezzato: il forcone di Pitchfork è scattato vibrante a stroncarli: chi credono di essere, cosa credono di portare di sostanziale nella musica, costoro? E dove sono le barbe, perdio? 

In questa fase della storia del mondo, l’ipotesi che quattro inglesini per benino vogliano giusto fare musica gradevole è dura da accettare. Troppo stupida. Ma forse è realmente tutto qui. La musica di questo quartetto geek fin dal nome (una combinazione di tasti sul computer) è ricercata, ma non pensata. Niente di sperimentale, niente di innovativo. Un tè coi biscotti sonoro. Un tè 2.0, volendo, ma il tutto resta riconducibile a una dozzinale questione di piace-nonpiace. E i primi a stupirsi dei dibattiti su di loro, sono gli Alt-J. 

C’è qualcosa che hanno scritto che vi ha infastidito?
Sainsbury: Che siamo i nuovi Radiohead. La cosa ci confonde, perché da un lato ci lusinga, dall’altro ci confonde. Dà un’idea sbagliata delle nostre canzoni, e certo irrita qualche fan: “Ah, così vi credete i nuovi Radiohead”. Per me, i prossimi Radiohead sono i Radiohead.

Dipende dalle radici universitarie. Come loro, sapete leggere e scrivere, e tutti quanti siete in grado di formulare frasi articolate.
Green: Scrivono che siamo spocchiosi e scostanti. Più che dalla musica, credo dipenda dall’aver studiato arte, o letteratura nel caso di Gus. La cosa nelle interviste scatena domande a carattere artistico che prendono direzioni un po’ goffe. 

D’altronde, la cosa incuriosisce. E ora siamo in Italia: siete tenuti a dirmi qualcosa di artistico.
Sainsbury: Ah… Forse può interessare i lettori italiani il fatto che quasi tutti i ragazzi che studiano con noi siano affascinati dai futuristi più che dall’arte rinascimentale. Molti vengono sedotti dal Manifesto Futurista, così radicale, e giovane. E pericoloso, visti i rapporti col fascismo.
Unger-Hamilton: Penso che la gente, soprattutto chi ha qualche anno più di noi, ci prenda più seriamente di quanto facciamo noi. Non avevamo preventivato di ricevere domande su tanta parte dello scibile umano. Tutte le interviste che stiamo dando da un anno ci fanno scoprire certe cose di noi che non sapevamo. E lo dico anche a livello personale: da un anno stiamo insieme anche intere giornate, ma scopriamo cose l’uno dell’altro durante le interviste.

Ma alla fine, direste che i vostri studi influenzano la vostra musica?
Unger-Hamilton: Influenzano quello che siamo, quindi sì. Ma solo per quello. Non abbiamo mai discusso una direzione da dare al nostro stile.
Sainsbury: Non saprei nemmeno dire se abbiamo uno stile. Forse l’unica cosa che caratterizza le nostre canzoni è la voce, le armonie vocali.

E i testi? Li scrive solo Gus. Perché voi no? Non vi disturba se un altro usa certe immagini per musica che avete scritto voi? Se la gente vi identifica coi suoi testi?
Unger-Hamilton (lascia parlare gli altri ma fa capire che non la prende bene) (forse non ci piacciamo) (ma ha cominciato lui) 
Green: Gus vede le canzoni come storie con uno sfondo musicale, per me la musica è ciò che siamo. Alla fine, sono due visioni che possono convivere. I suoi testi mi vanno bene.
Sainsbury: Non ho mai cercato di essere coinvolto nella stesura dei testi. Penso che il tipo di musica che facciamo resti impresso per il suono e non per le liriche e credo che la maggior parte della musica pop e rock si basi ancora su questo, con tutto il rispetto per band che hanno creato testi fantastici, e per il nostro amico che mette parole nelle nostre canzoni. E poi, quei testi sono qualcosa che per me è talmente suo, personale, che non mi sento di discuterli.

Dopo tutta questa notorietà avete discusso su cosa vorreste cambiare, o aggiungere alla vostra musica?
Unger-Hamilton (rapidamente): No, è tutto rimandato al secondo album, che prenderà forma a settembre.

Ma visto che state insieme tutto il tempo, qualche idea sarà arrivata.
Sainsbury: Sì, ma chissà che accadrà a quelle idee una volta in studio. Le canzoni del primo disco sono nate da spunti che in studio sono diventati qualcos’altro. Per un pezzo come Fitzpleasure, sapevamo che sarebbe stata intrigante una linea di basso un po’ dubstep, ma componendo non avevamo le possibilità tecniche per quel suono. I pezzi sono entrati in studio in mutande, poi lì hanno trovato i vestiti. Magari non quelli che pensavamo noi. Mi piace l’idea di non sapere quale sarà il risultato finale. Perciò non sappiamo assolutamente come suonerà il prossimo disco.

E com’è creare una base ritmica per un gruppo come Alt-J? Le vostre ritmiche sono ovviamente più sofisticate rispetto alla pop song media, ma non sono mai in primo piano.
Green: Io cerco di essere naturale, di non strafare. Suonare con i ragazzi è facile. Non discutiamo quel che facciamo, lo facciamo e basta. Non ci siamo mai seduti a ragionare, a dire: ora faremo questo. Suoniamo un sacco, finché ciò che viene fuori ci piace e siamo soddisfatti di noi. Non abbiamo nemmeno formato intenzionalmente la band. Eravamo amici, ci trovavamo a suonare. Non ci saremmo mai aspettati tutto questo. Non lo abbiamo cercato, è arrivato. Volevamo solo fare un buon album che sarebbe piaciuto alla gente e a noi. Non abbiamo mai nemmeno detto: “Cerchiamo di suonare come queste band”. 

Ma avrete delle divinità musicali.
Green: Io no.
Unger-Hamilton (non risponde. Fa piccole smorfie per segnalarmi che la domanda lo irrita)
Sainsbury: Forse l’unico che nella vita ho cercato di usare come riferimento per un suono di chitarra è stato David Gilmour, per come riempie lo spazio lentamente con la sua chitarra. Ma sarebbe strano se qualcuno trovasse un legame tra lui e la nostra musica.

Qual è la parte più buffa dell’essere finiti sotto i riflettori?
Sainsbury: La nostra impreparazione davanti ai media. Specie se condividiamo la serata con gruppi più esperti, gente che organizza un’espressione da star in un secondo appena vede un fotografo.
Green: Per me, i fan. Cioè, chi sono? Loro sanno chi siamo, cosa cantiamo. Noi non sappiamo niente di queste persone, e questa è una relazione sbilanciata. E’ carina come cosa, ma se ti fermi a pensare è uno degli elementi che manda fuori di testa le rockstar.
Unger-Hamilton: L’altra sera stavo facendo pulizie sul tour bus, puzzavo, sono uscito e c’erano dei ragazzi che volevano stringermi la mano, ma era davvero sporca. Era surreale, mi sono trovato a chiedermi: adesso che mi hanno annusato, la nostra musica gli suonerà diversa?

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