Numeri uno in classifica. Proprio ora. Che strano.
Per carità: Elio & le Storie Tese sono il principale gruppo rock italiano degli ultimi venticinque anni. Non c’è un’altra band le cui strofe sono citate come evangelo da due generazioni, i cui membri sono riconosciuti come musicisti sommi, e capaci di attività rilevanti non solo nella musica.
Pure, qualcosa scricchiola. I fan medesimi hanno reagito con un atteggiamento più difensivo che entusiasta di fronte a L’Album Biango. Quanto alla stampa musicale, è passata da un atteggiamento di complicità ammiccante e goliardica all’indispettito “Hanno rotto i coglioni” mormorato da un amico di Amici al buffet successivo alla presentazione. Come succede a fine anno nella classe che sta maturando il suo risentimento nei confronti dei professori pronti a bacchettare tutti, a colpi di battute e competenza musicale.
Chissà se c’entrano alcune recenti manifestazioni di insofferenza del gruppo milanese nei confronti dell’ambiente musicale italiano, dai tanti colleghi sbertucciati ai media, passando per il pubblico medesimo (“un Paese di ignoranti musicali”, hanno rimarcato tramite l’architetto Mangoni al concerto del Primo Maggio. Mentre la gente applaudiva). Oppure le prove sanremesi, quel virtuosismo acrobatico un po’ provocatorio ma anche un po’ presuntuoso che li ha portati dal Barbiere di Siviglia a Sanremo 2008 alla Canzone mononota.
Ora. Rispetto ai faticosi album recenti (…oddio, recenti) (il fiacco Studentessi è del 2008), il voto torna alla sufficienza piena. Grazie soprattutto ad alcune canzoni che strappano meraviglia. Epperò, il titolo con ammicco beatlesiano ci aveva tanto divertito quanto illuso che non avremmo ricevuto un’altra impagabile raccolta di divertissement ed esercizi di stile, ospitate gustose e calembour inarrivabili, bensì il disco DEFINITIVO – che tal può definirsi. E dire che L’Album Biango, proprio come quello inciso 45 anni fa ad Abbey Road, è nato in un clima di sfilacciamento, con alcuni componenti della band meno presenti di altri in studio. E che i due argomenti che ritornano più spesso nel disco siano:
1) Musica e ambientino musicale
2) Cioè, lasciateci respirare
Come dire che questi sono i primi pensieri della band milanese quando si pensa band. Va bene, le canzoni sulla musica le hanno sempre fatte, da Disco music a La bella canzone di una volta: sono sintomi di quell’amore che spinge a farla a pezzi come i bimbi fanno a pezzi i giochi più amati. Però manca tutto il resto. Mancano quelle esilaranti riflessioni esistenziali, quel pizzico di dolore vissuto che faceva amare Servi della gleba, Tapparella, Cara ti amo, Uomini col borsello. Mancano i disagi giovanili riletti in modo obliquo in Cara ti amo (chi ha più tentato niente di simile?), la capacità di cogliere la malinconia dove sembra più improbabile (John Holmes) o l’improbabilità di quanto sembra più malinconico (Cassonetto differenziato per il frutto del peccato: vi rendete conto di cosa parla questa canzone, sì?).
Ma allora è crisi di idee? No. Perché quando gli Elii si pensano macchina da satira (le instant songs dei programmi su RaiTre) o da intrattenimento (Cordialmente), il susseguirsi pirotecnico di spunti sembra quello dei tempi belli.
Quindi il limite è diventato pensarsi come gruppo rock, e soprattutto come gruppo rock che incide degli album. Perché li incidono esattamente come ai tempi di Eat the Phikis. Alcune canzoni portanti, altre meno, piccoli siparietti tra un pezzo e l’altro, ospiti usati in modo che sconcerti l’ascoltatore. E’ la loro formula, e non ne escono più. E tuttavia, se Dannati forever è una delle cose migliori che abbiano mai scritto, e il Complesso del 1 maggio ha il dna della Terra dei cachi, l’asino casca di fronte ai riempitivi. Perché in Eat the Phikis come brani interlocutori c’erano First me second me (!), Omosessualità, Lo stato A lo stato B. In Rum Casusu c’erano Urna o Essere donna oggi. Qui, abbiamo pezzi buffi eppure spenti, come fossero scarti – scarti di qualità, ma pur sempre impolverati.
Il problema rimane: a EELST ultimamente riesce tutto facile, tranne gli album. C’è da dire che non sono i soli. E che accorgersene significa prendere atto che eravamo stati abituati veramente bene.
Detto questo, Emma dopo un mese ha mollato la n.1. E in top 10 è entrato anche Enrico Ruggeri, con Frankenstein, creatura ormai meno sorprendente del Vitello dai piedi di balsa – tra l’altro, in tema di corti circuiti, Frankenstein era anche sulla copertina di un disco degli Area, citatissimi da EELST. A lasciargli il posto è P!nk, che slitta al n.11. Per il resto, dietro Emma (n.2) c’è Fedez. Poi i Modà. Vi ho mai detto cosa penso dei Modà?
Posso dirlo? Posso dirlo anch’io, che hanno un po’ rotto?
Sono dei mostri, si sa. In Italia i migliori (per la fusion, almeno) da sempre. Sono la cosa più zappiana dopo Zappa. Sono dei funamboli dei testi, quando vogliono. Tanica si avvicina di molto alla mia idea di «genio».
E però.
Spocchia insopprimibile. Zappa è tanto Varese quanto Elio è X-Factor, e al giochino del perculare il sistema dall’interno ormai non ci crede più nessuno. Sono i più colossali snob della storia della musica italiana. Dopo i Weather Report o The Lamb lies down on Broadway non c’è più niente, nessuno che ti faccia il pezzo in sessantaquattresimi, bla bla bla, fate tutti schifo, io so’ io e voi nun siete ‘n cazzo. L’incensamento folle e acritico di questi ultimi anni (Assante e Castaldo che piangevano sangue per la Canzone mononota, che meh) non ha aiutato.
Ma il loro limite più grosso è che sono diventati, sostanzialmente, una cover band straordinaria: vogliono fare il pezzo alla PFM e c’è Plafone, vogliono fare il pezzo alla Area e c’è Come gli Area (appunto), vogliamo il Trio Lescano ed ecco Suicidio a sorpresa, Cesareo si lamenta che vuole il riffino alla Page e voilà Heavy Samba. Cioè, basta. Va bene. Abbiamo capito. Siete i mejo.
Però stop, adesso.