AMARGINE

Il pop italiano è una Fiat 126 – TheClassifica episodio 17/2021

Pre Sto. Con amici e colleghi – ma anche con nemici e scollegati – mi ritrovo spesso a fare magnifici discorsi sulla musica. Su com’era, com’è. Sulle sue storie, sulle sue instagramstorie. Su cosa ci dice del mondo com’è, e come non è. Su come ci ha cambiati e come cambierà senza cambiarci più. E ormai questi discorsi mi paiono così migliori di tutti gli album in circolazione, che temo di ritrovarmi un giorno a vagheggiare album immaginari come gli assoli di chitarra immaginari del povero Joe, rockstar mancata immaginata da Frank Zappa. Non sarei nemmeno originale: lo fece per primo (tanto per cambiare) Magister Bertoncelli recensendo un LP di Crosby, Stills, Nash & Young così plausibile che la casa discografica inondata di richieste fu costretta a smentire. Lo ha fatto di recente Reg Mastice in un libro, e lo fece vent’anni fa mescolando hype e whatif il caro, scomparso Modern Humorist, che rivelò che l’imminente Kid A dei Radiohead avrebbe portato alle estreme conseguenze il pessimismo della band, con un disco di teen-pop prodotto da Max Martin, ospiti Scary Spice e Aaron Carter, e titoli accattivanti come Download my heart e Yo quiero bailar. La Storia ci dice che Kid A non è stato quel tipo di disco. Ma mi piace immaginare che un po’ ci abbiano pensato, a fare un disco pop insopportabile – ma che poi gli sia mancato il coraggio e abbiano dovuto accontentarsi del disco che quasi tutti considerano il loro capolavoro
(mmh, io no) (so che ve lo aspettavate) (confido che non vi interessi sapere qual è il mio preferito) (…non interessa nemmeno me)
Ecco, questo coraggio di fare un disco caruccio (“cuuuute” come diciamo noi giovani) e sciabadabadoso non è certo mancato a
Il numero uno. Con la classifica che ha chiuso il mese di aprile, Multisala di Federico Bertolini in arte Franco126 (come i centoventisei gradini della scalinata di Trastevere) è diventato il 15mo album diverso in 15 settimane a occupare il trono dei presunti album, dal quale per qualche giorno può guardare tutti quanti con alterigia. Da gennaio, 15 artisti diversi hanno avuto la loro settimana di trionfo, per poi ritirarsi in buon ordine – avanti il prossimo, gli lascio il posto mio. Viceversa, tra i singoli non si muove quasi niente. E così è come se il Paese fosse schiacciato tra gli spotifati ossessionati dalle Nuove Uscite (gli album) e i forzati della Top 50 (i singoli) che ogni giorno si fanno rassicurare dalle stesse musiche leggerissime e di #successo. Di per sé, Multisala è un altro album piasciòne da cantautorino indie co’ dentro er friccicòre d’aaaaaa primavéra de Roma, capitale ITALIANA dove da vent’anni la legge spietata dello showbusiness impone a cantanti e attori di forzare un accento romanesco pure quando non ce l’hanno, e persino se non sono dell’Urbe – per ostentare vicinanza alla GENTE, seguendo un filo lòggico ‘mportante. So che facendo notare questo dettaglio sembrerò più milanese di quello che sono, ma dentro di me (…come in ogni milanese, credo) c’è un romano mancato, e anche da dentro me stesso trovo tale espediente un po’ penoso. Ma devo ammettere che molto dipende dal fatto che ai primordi dei miei ascolti di musica, quando per la prima volta mi arrivavano canzoni di Battisti o di Baglioni o De Gregori, non deducevo immediatamente la loro provenienza, e credo che molto dipendesse dal fatto che non era la loro primissima preoccupazione farla percepire a me o agli ITALIANI. Il che mi sobilla un
Volo pindarico sul neoprovincialismo. Giovani virgulti, voi non ci crederete e io stesso l’ho capito solo dopo (anche perché ero infante, e infantile) ma l’Italia in cui sono cresciuto aveva una voglia di sprovincializzarsi immensa, tanto che ci si lamentava di esterofilia dilagante. Nella musica Michael Jackson, Bruce Springsteen, Madonna, Duran Duran – i quadrumviri dominanti degli anni 80, peraltro se ci pensate ben distribuiti dal punto di vista musical-ideologico – presero il sopravvento nel giro di due anni, da Rio (1982) e Thriller (1983) a Like a Virgin e Born in the USA (1984). Ognuno dei quattro (Nella Mia Umile Opinione) aprì poi la via per qualcun altro, non sarò certo io a sminuire Prince o Sting, Depeche Mode o U2, che erano già in giro ma avrebbero preso il testimone già a uno stadio evolutivo più avanzato – e lo dico, ovviamente, da incallito estimatore di tutti quanti. Ma ora vi spiego dove voglio arrivare.
1981 vs 2021. Farò ricorso alle classifiche che il premiato sito Hitparadeitalia ha provato a eternare, sapendo (come lo sanno loro) che l’attendibilità delle charts che ci sono state tramandate è un po’ labile, ma sicuramente imparziale. Questi erano i dati che ci venivano dati (per questo li chiamiamo dati). Proprio quarant’anni fa, per la prima volta nella Storia, i primi tre singoli più venduti dell’intera annata furono tutti e tre stranieri. E tranne il n.2, di un gruppo del quale nessuno sapeva niente (e temo che oggi il Corsera li chiamerebbe meteore) possiamo ancora considerare quei particolari brani come vicini a un’idea di musica che era commestibile sulle nostre tavole. Anche al quarto e quinto posto però ci sono canzoni non ITALIANE, e sono di FEMMINE.
Ma voi non guardate chi è davanti, guardate chi insegue: Ricchi e Poveri, Cecchetto, Loretta Goggi, Albano & Romina, Gianni Togni, Riccardo Fogli. Lo riconoscete? È Sanremo, col suo ghigno mortale: ritenuto spacciato pochi anni prima, come ogni zombie che si rispetti si riprende e rialza la testa. Nel 1982 si ha ancora un podio straniero, e il 45 più venduto è addirittura Der Kommissar, il rimosso rap austriaco di Falco. Ma Claudia Mori, Riccardo Fogli (vincitore di Sanremo) e Albano & Romina non mollano. Ed ecco arrivare
La mia riverita ipotesi. A un certo punto negli anni 80
(prendetevi un momento per deprecarli come sempre) (fatto?) (bene) (che non si dica che a parlare qui è una qualche nostalgia) (l’unica legittima è per le telecronache, che le faceva Bruno Pizzul da solo, e non i più babbioni del vostro liceo, in coppia) 
dicevo, negli anni 80 scattò una reazione al provincialismo di un decennio come gli anni 70 che avrà anche avuto i suoi pregi, ma in Italia culturalmente tendeva all’autarchia quasi quanto il Ventennio. E se nei consumi di massa la reazione si esprimeva nel graduale rigetto delle onnipresenti scatolette Fiat 126 ITALIANE del nababbo di Stato Agnelli, nel consumo di musica, anche quella più di consumo (…è per sottolineare questo, che vi sottopongo i 45 giri e non i 33 giri, per non parlare dei concertoni delle star internazionali negli stadi, sempre una faccenda che data dagli anni 80) si manifestò in un altro tipo di rigetto. Nella ricerca di qualcosa che fosse in antitesi con l’onnipresente pop ITALIANO di Tozzi, Riccardo Cocciante, Pooh, Zero, l’altrettanto rimosso Alan Sorrenti. Niente di personale nei loro confronti (anzi, dei primi due difendo la musicalità, sottovalutata rispetto ai testi), e certamente non sono qui a decantare Nikka Costa o Lio, che manco so chi fosse, apprendo oggi da Wikipedia che era portoghese naturalizzata belga. Sto dicendo che l’apertura dei confini musicali fece aprire tutta la musica italiana, dal pop ai cantautori. Per risollevare lo stramaledetto Festival, Pippo Bau iniziò a inseguire gli ospiti internazionali, e fu per questo che gli adulti di oggi rimasero fatalmente agganciati alla kermesse, e moriranno kermessando. Poi, se notate, nella classifica del 1983 che vedete gli italian boys in qualche modo rispondono, e al n.1 di Flashdance replicano I like Chopin di Gazebo e Vamos a la playa dei Righeira, due clamorose appropriazioni di nuovi stilemi in chiave ITALIANA – proprio come Vacanze romane dei Matia Bazar (n.4). In quella top ten il Belpaese risulta oggettivamente subissato. Non una grave perdita, vedendo come a difendere l’eccellenza ITALIANA c’è Corrado, con la eccellente pipì di Carletto, al n.9. Lo stesso succede inevitabilmente negli album, con l’irruzione tra i primi album più venduti di MiticoVasco, con delle Bollicine molto più funky che rock (perché noi Vasqueros della prima ora e mezza sappiamo bene che lui era un tamarro da discoteca). E trai più venduti di quell’anno, tra Thriller, Flashdance e Sinchronicity, ci sono altri due cantautori che riscuotono un entusiasmo di massa che negli anni 70 potevano solo sognarsi, cioè Dalla e Battiato, due che erano cresciuti guardando lontano, fuori dai confini – per poi eventualmente tornare a passare l’estate su una spiaggia solitaria, dove il mare luccica e tira forte il vento…
Lo stivaletto. Siccome siete gente vispa, sapete meglio di me che in queste settimane si discetta di comicità. Non credo mi deriderete se prendo atto che il mai sopito filone degli stereotipi regionali è tornato ai suoi massimi, da Casa Surace e Pio & Amedeo al Milanese Imbruttito (e tutti gli altri, dai). Evidentemente, per qualche tipo di viscerale ripiegamento antiglobal, viviamo un periodo di coccoloso ritorno all’ideologia dello Strapaese caldeggiata dal nonno di Alessandra Mussolini. Ma in quel caso l’autarchia era il vicolo cieco in cui lo scemo aveva infilato i nostri nonni; oggi è soprattutto una smania mentale, tanto che le multinazionali sono costrette a mettere bandierine tricolori sui loro prodotti per garantire a milioni di ex secessionisti che il dentifricio e la carta igienica sono fatti con ingredienti ITALIANI. Ebbene, io quando sento Gazzelle, Coez, Achille Lauro, Carl Brave o quando sento Franco126 pronunciare la parola “cabbbarèt” con tre B, mi sento preso in giro come quando vedo quelle bandierine.
(anche se discograficamente parlando, è giusto precisare che là fuori non è molto diverso; la chiusura verso l’esterno è una reazione diffusa ovunque, dalla Francia alla Germania alla Spagna. Curiosamente solo gli USA sembrano immuni, e continuano ad ascoltare britanni, latinos, persino sudcoreani)
Cionondimeno, l’accento che anvedi ahò profuso a profusione dalla Nuova Scuola Romana è solo un piccolo sintomo, trascurabile. La malattia è ben altra. E qui, per una volta mi tocca dare ragione a
Quello Che Scuote La Testa E Dice Che È Sempre Stato Così. Perché è vero, dal punto di vista melodico è inequivocabile, siamo di nuovo di fronte a un ribaltamento, a un rifiuto di quello che è stato – e si manifesta nella Vendetta delle Lagne all’ITALIANA. Il disco di Franco 126 è caruccio, le canzoncine sono fatte bene, i testi sono pensati per entrare nei tweet come nella Smemoranda, pieni di “forse” (anzi, di “fòrze”) e di rime adatte a un pubblico che dopo il decennio del rap maschione inizia a sentire il bisogno di canzoni paciughine con una spruzzata di “street cred”. Ci sta, lo capisco. Il dramma è che mancando riferimenti internazionali possenti, il ritorno alle radici ITALIANE si manifesta nel modo più raccapricciante. Perché chi come me è condannato dall’anagrafe ad aver vissuto il passaggio dalla “musica leggera” (si chiamava davvero così, e all’epoca non era un aggettivo hipster e coolissimo) subita durante l’infanzia alla successiva reazione in nome del pop e rock internazionale, che avrebbe colorato gli anni del teenagerato, non può non riconoscere stilemi che sperava sepolti, zio cantante. L’indie pop urban, con quel suo nomignolo modernista, sta riproponendo smaccatamente le gnagnere di Pupo, Collage, Sandro Giacobbe, Franco Simone. E ne sono così affranto che quasi ho nostalgia di quando Tommaso Paradiso tentava di ricalcare Umberto Tozzi, mondo cano. Si stava meglio quando si stava malissimo. Ciononostante, i critici della generazione successiva alla mia sembrano euforici di tanto mosciume. La mia prima spiegazione è: o prendono soldi, o prendono droga. La seconda è meno ottimista: sanno che siamo sempre stati questa roba qui. Che la Canzone ITALIANA, malgrado l’ostinazione degli esterofili come Fred Buscaglione o dei Renato Carosone o dei piccoli Maneskin che cercano di rinvigorirla, è sempre stata questo miagolìo strascicato con sapor di melodramma: a Sanremo, nel 1951, lo capirono subito. I traditori della Patria sono quelli che hanno cercato di cambiarla, sedotti dalle forze demo-pluto-giudaico-massonico straniere. Come ammetteva fin da subito l’intuitivo – ed esterofilo – Bennato (Edoardo), i rinnegati, stirpe neghittosa ed empia, siamo io e, temo, la maggior parte di voi, che nei periodi di procella cerchiamo, ogni volta, di dirottare questa barcarola. Ok, lo so, speravate in una spiegazione a nostro favore. Mi spiace. Mica sono qui a consolarvi – vi intrattengo un po’, ma poi chi vi conosce a voi? Vi rinnego pure a voi, da subito, ce l’ho dentro. Comunque, già la prossima settimana staremo parlando di altro ancora perché al n.1 ci andrà Rkomi. L’altra Nuova Uscita è Motta, che però sullo streaming ha numeri impietosi. Ma se vende quaranta vinili può farcela, staremo a vedere. Passiamo ora al
Resto della top ten. Il regno di Achille Lauro è durato, come da programma, una settimana, e il suo album scende al n.6; rimane saldo in seconda posizione Gué Pequeno con DJ Harsh, e Madame che risale al n.3 garantisce la presenza di un album sanremese sul podio, mentre i Maneskin scendono al n.5. Debutto al n.4 per Solo esseri umani (Valori / Amore / Vita), quarantaduesimo album in studio dei Nomadi, featuring Enzo Iacchetti nella title-track. Poi raffica hiphop/urban a concludere la prima diecina: Mace, Capo Plaza, infine Sferoso Famoso ed Ernia che risalgono ai n.9 e 10.
Altri argomenti di conversazione. Detto di Franco126 e dei Nomadi, non ci sono altre nuove entrate in top 50. Niente di niente. Ma ripetete con me: “è un periodo eccitantissimo per la musica”. Sinceramente, sembra che sopravviva (faticosamente) un album al mese, non c’è da meravigliarsi che ne escano sempre meno. Fuori subito dalla classifica gli Offspring (erano entrati al n.29), mentre Max Gazzé può dire di avere qualcosa in comune con Taylor Swift: entrambi sono durati due settimane; abbandona dopo un mese Maxtape di Nerone. Tra le nuove entrate in top ten della settimana scorsa, scendono dal n.5 al n.20 i Coma_Cose, dal n.6 al 17 Greta Van Fleet, dal 9 al 23 Emanuele Aloia.
 
Sedicenti singoli. I fan del golden boy Ultimo non riescono a scalzare la Musicaleggerissima dal n.1, pertanto il nuovo inno Buongiorno vita si deve accontentare di un dignitoso secondo posto, col podio chiuso da un’altra vedette della kermesse ligure: Madama, con Voce. Il pezzo di Ultimo è anche l’unica novità nella top ten dei singoli, perché a costo di ripetermi, tutti amano le Nuove Uscite, ma non le nuove canzoni. C’è anche una canzone non ITALIANA, è al decimo posto, Friday di Riton x Nightcrawlers feat Mufasa & Hypeman, al n.1 in Polonia e Belgio (Fiandre). Ma la vedo salire inesorabilmente in Slovacchia. Non sarò io a ironizzare su una nazione che ha mandato al governo un partito che si chiama Gente Comune e Personalità Indipendenti – nessuno, qui, è nella posizione per farlo.
 
Lungodegenti. Tempo di aggiornare la situazione per gli album che piacciono tantissimo e sono in classifica da almeno due anni – evidentemente sono i più belli dal 2018 a oggi. Per cambiare un po’, ve li sottopongo con la posizione attualmente occupata (nella prima colonna), seguita da quella della settimana precedente e dal numero di settimane consecutive di militanza in top 100.
 
…Ma naturalmente il più immarcescibile (nonostante le apparenze suggeriscano l’esatto contrario) è il segnetto di Ed Sheeran.
Che è a quattro settimane dal battere il record di permanenza dei
 
Pinfloi. Il cui The dark side of the moon è tornato a uscire di classifica, una settimana dopo che era rientrato. Il mio amico Dan The Man, insider in Feltrinelli, mi dice che la casa discografica continua a non mandarlo nei negozi, malgrado le richieste. Mi chiedo se ci sia un complotto in merito. Ma la sindrome da accerchiamento è più tipica di The Wall che del suo fratello maggiore hippie, e il muro bianco non ha motivi di gridare allo scandalo visto che, anche grazie all’assenza del prismone nei negozi, le sue vendite aumentano di un pizzico facendolo salire dal n.59 al 55. E visto che il convitato di pietra di questa puntata è stata la Fiat, non credo mi possiate obiettare che The Wall è Gianni Agnelli, col suo disprezzo infinito per il genere umano; The Dark Side Of The Moon è Susanna Agnelli, con quel tocco di compassione per i suoi (…sia detto con cautela) simili. Inutile dire che Wish You Were Here è invece Umberto Agnelli, melanconico, spaesato e inadatto alla società.
Grazie per aver letto fin qui, a presto.

5 Risposte a “Il pop italiano è una Fiat 126 – TheClassifica episodio 17/2021”

  1. Deluso dal non aver visto il parallelo con la fine dell’autarchia calcistica nel 1980 con l’apertura ai giocatori stranieri.

    1. Per la miseria, ci avevo pensato. Ma è già un’enciclopedia adesso, come faccio ad allungarlo? 🙁

  2. Grazie Paolo e ancora grazie, come al solito. Sono commosso o forse sto solo piangendo, non necessariamente dal ridere. Se è riso, comunque è isterico (e ITALIANO).

    Solo un cosa: so che non è che puoi metterci proprio tutto tutto tutto quando ti spari ‘ste analisi del glorioso passato, però mi viene da pensare sta roba qui. Non è che il rigurgito anti-provinciale degli anni ’80 nasce anche dal fatto che finalmente era finito l’embargo degli artisti stranieri, che si rifiutavano di venire in Italia a farsi massacrare palchi e impianti (e a volte rischiando le penne) causa ideologie un tantino estremiste?
    Anche in questi anni c’è una mezza specie di embargo auto-imposto, rivendicato, autarchico e inasprito in questo biennio da causediforzamaggiore. Possibilmente finirà e la gente fòrze imparerà anche un po’ di inglese e/o tornerà a non vergognarsi di cantare uacciugonaué.

    Però aspetta, c’è anche da dire che pure in UK e in USA è pieno di gente che canta cose incredibilmente provinciali, zeppe di localismi, autarchismi e roba così.

    No niente, lasciamo perdere che da qui poi mi si incastra anche la questione identity politics da liberal, scimmiottamenti aberranti in chiave locale e poi mi viene in mente quel duo che dicono comico di cui si parla veramente TROPPO e allora mi si chiude lo stomaco ancora di più e mi sale la bestemmia.

    Gran pezzo Paolo, stai in formissima

    1. Grazie per i complimenti, #nonsonodegno.
      Quanto al ripiegamento provinciale degli angloamericani, è vero anche quello, ho cercato di riassumere alla grossa nella parentesi in cui dico che anche là fuori non è molto diverso. Ma sulle charts dei due imperi credo disserterò la settimana prossima – anche perché su Rkomi in passato ho già pontificato assai. :-/

  3. Ciao Paolo, io per esempio faccio country music ma in…romano.
    Il regionalismo è proprio uno degli aspetti che più mi piacciono del country.
    L’ho già detto che so’ romano?
    Ciao e grazie della citazione.

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