«Vi drogano con religione, sesso e TV
E pensate di essere individui a parte, liberi e furbi
Ma per quello che vedo, siete sempre gli stessi poveracci».
(John Lennon, Working class hero)
(…la prendo larga)
Confesso che avevo delle aspettative nei confronti del primo album di Arturo Barioli, 24enne di Milano, Quartiere Bicocca, in arte Artie 5ive. No, aspettate: ricomincio.
Confesso che avevo delle aspettative nei confronti del rap.
D’altra parte, forse la generazione precedente la mia, quella che ha fatto in tempo a vederlo in volo, aveva aspettative nei confronti del rock’n’roll.
Non è un paragone del tutto onesto, vero? Però tutti e due sono nati come musica per ballare, poi sono diventati qualcos’altro. E alla fine, il primo, a più o meno 50 anni di età, è morto – buh. Non chiedetemi la data precisa. Quando il rock era ancora un kid, tutti erano già ansiosi di darlo per morto, per togliersi il pensiero. Era un giulivo argomento di conversazione, stabilire quando si fosse spento: se il giorno in cui Elvis partì per il servizio militare o il giorno in cui si schiantò l’aereo con Big Bopper, Buddy Holly e Ritchie Valens, o quando è morto Kurt Cobain. Però è sempre stata una costante. Era la morte sua, che fosse morto. Pete Townshend iniziò a lavorare al suo progetto “Rock is dead” nel 1972. Neil Young aveva emesso il verdetto: “Rock and roll will never die”, ma con una delle sue canzoni più funeree. Quanto al punk, nel 1977 fu dichiarato morto perché i Clash avevano firmato per la CBS (oggi, Sony): all’epoca i Crass non avevano ancora inciso Punk is dead.
O era un rito di rigenerazione tipo la Pasqua, oppure un augurio per allungargli la vita come quando sogni che lo zio è morto. Per contro nessuno in questi quasi 50 anni di Delizie Dei Rapper si è sognato di dire, neanche per ischerzo, che il rap è morto. Un po’ perché il comparto, compatto, non lo permette: la produzione produce, le tre megamultinazionali bombardano senza posa i loro target, e tutti si arricchiscono…
Ma soprattutto, perché teorizzare è inutile. Puoi dire o scrivere la qualunque sul rap, e nessuno se ne cura. Già io so benissimo di abusare della vostra pazienza parlandone: presumo che pochi lettori di questa rubrica conoscano Artie 5ive (…vedi perché la gente va a Sanremo). Al 99% del pubblico dei rapper in realtà non frega niente del rap in sé, e forse è un atteggiamento sano. Alla fine è gomma da masticare, sono nuovi giubbotti neri uguali ai giubbotti neri dell’anno scorso e di tre e sei anni fa, cambia solo lo scemo che te li vende. A parte i cinque-sei monumenti del rap italiano (e in Francia e Germania le cose non sono molto diverse), i testi sono tutti uguali, obbligatoriamente (perché come i videogiochi, le mosse alla fine devono essere quelle). Cambiano a malapena i brand citati.
Però un pregio ce l’ha. L’unica cosa rimasta vera del rap è la sua funzione di ascensore sociale, che poi è l’unica per cui noi critici continuiamo a vederci molto più di quello che ci sentiamo. Perché il rap è realmente, mitologicamente la strada (“la piazza” degli anni ’70), ma se non altro per qualcuno, una trentina di giovani italiani l’anno, è una strada che porta lontano da un Paese dove le strade non portano a niente. È come il calcio o il pugilato o gli hunger games o una delle mille trasmissioni laide di Piersilvio Berlusconi: è un biglietto per Gattaca, una delle poche strade per fuggire dal quartiere millantando tra le lagrime che non dimenticherai mai i bro del quartiere.
Quindi, perché menarsela? Come posso avercela con Arturo Barioli, 24enne di Milano, Quartiere Bicocca, in arte Artie 5ive, solo perché da lui mi aspettavo un album meno banale e palloso e già sentito? Perché, con che diritto, con che pretesa avevo delle aspettative, invece che elogiarlo perché fa quello che va fatto, nel modo in cui va fatto? È forse perché abito in un quartiere vicino al suo (peraltro, storicamente più sfigato)? È perché conoscenti comuni mi hanno parlato molto bene di lui personalmente? È perché dalle sue interviste…
(fatte da altri, eh. Non da me. A me, non mi ci mandano più a intervistare i rapper, vattelapesca perché – LOL)
…ho apprezzato quello che aveva da dire? E che – come tanti altri – si guarda bene dal dire ai brufolosi che portano denaro a lui, ai suoi discografici, al suo manager? Nel rap, come nel pugilato, non conta quello che hai da dire. Contano le finte, conta colpire nel punto giusto, conta non esporsi, conta mostrare alla fine la cintura al pubblico. E quindi “La mia vita sembra un film, ho imparato a recitare mentre piango sotto gli occhiali da sole di Versace”. Oppure “Il pizzo ti dona, ma sei meglio nuda, Helmut Lang, Jimmy Choo, sono pieno di ferite e tu sei la mia cura. Io non ti mentirò più. Quando sono con le altre non provo nulla perché ci sei solo tu”. E qui si vola già alto rispetto al pezzo funny, quello da classifica, Sogno americano: “Mi parla inglese, io vesto italiano, guido una tedesca, sogno americano, bacia alla francese (muah), fumo giamaicano, borsetta Hermès, per lei spendo come un arabo (yeah, yeah, yeah)”.
Modalità comprensiva ON. Artie è al disco di debutto, e il manuale del gioco prevede che in questo momento consolidi la fama, faccia i dischi di platino, riscuota gli algoritmi dei brufolosi. Una volta che i dischi di platino lo avranno legittimato davanti al branco, MA POI vedrete, sicuramente farà qualcosa di meglio di questa imitazione di Gué Pequeno per ascoltatori frà, il cui vocabolario frà, si sta riducendo frà, ancora più dell’immaginario, frà.
Modalità comprensiva OFF. Solo che non è vero. Non c’è un “Ma poi”. Non se ne esce più. Non vale più dire “Beh, ma Marracash però” – che ormai è come dire “Il rap ha fatto anche cose buone”. Sono felice personalmente per il riscatto sociale di Artie 5ive, ma non sono così scemo da pensare che tutta questa generazione di numeri uno siano degli eroi della classe lavoratrice.
«Una volta avevo delle ambizioni. Ma me le sono fatte togliere da un dottore a Buffalo».
(Tom Waits, 1985)
Modalità comprensiva BACK ON. D’altra parte, se quelli che dicono di raccontare la strada lo facessero sul serio come il primo Lou Reed, venderebbero esattamente quello che vendeva il primo Lou Reed, dai Velvet Underground fino all’incontro con Bowie: zero. Manco agli amici. Così, quello che fa la differenza, quello che piace, alla fine, è Artie, lui personalmente. E gliene va dato atto. E quello che dice, è quello che ci sta dicendo la classe lavoratrice: che lavorare stanca, vogliamo le Lambo e i Rolex. E quindi. Poi, okay, c’è questo insignificante dettaglio che il suo album La bella vita potrebbe essere il disco di qualunque rapper degli ultimi 5ive anni – perché dicono tutti le stesse cose, e per quello che sento, sono sempre gli stessi poveracci.
(ah, beh – eccetto la rima sul Village Bicocca. Dove nei bagni, qualcuno glielo prende in bocca)
RESTO DELLA TOP 10. È abbastanza appropriato che Tutta Vita di Olly lasci il n.1 a La Bella Vita di Artie 5ive. Alle spally di Olly (n.2), c’è un’altra nuova entrata sul podio, ed è Futuri Possibili di Franco126 da Trastevere, che era stato in vetta alla classifica nel lontano 2021 con l’album precedente a questo.
Alle spalle dei tre rapper di Milano, Genova e Roma, c’è necessariamente il rapper di Napoli Geolier. Ma questa interessante progressione è guastata dal n.5 di una femmina, la milanese Rosa Luini in arte Rose Villain, e – quel che è peggio – da un paio di prodotti non ITALIANI: Bad Bunny (n.6, da 13 settimane in top 10, a uno straniero non accadeva dal 2014) e Ariana Grande con la versione DeLuxe del suo Eternal Sunshine. C’è una new entry anche nel vagone di coda del trenino, giacché alle spalle di Gué (n. 8) ci sono i nuovi entrati Negrita, che a loro volta precedono il lungodegente Lazza.
SEDICENTI SINGOLI. Siccome un album non fa primavera, a indicarci la discreta consistenza della popolarità di Artie 5ive ci sono i suoi tre singoli in top 10, il migliore dei quali è Sogno Americano al n.4, uno dei tanti senza featuring (ne ha solo 5 su 18 brani, anche se ben mirati: Kid Yugi, Gué, Niky Savage, Capo Plaza e Tony Boy) (da non confondere con Tony Effe).
Tuttavia, Artie non va sul podio che rimane santamente, tricoloramente legato alla Sacra Kermesse di due mesi fa, con Balorda Nostalgia di Olly al n.1, La Cura Per Me di Giorgia al n.2 e Incoscienti Giovani di Achille Lauro al n.3, lo stesso podio della settimana scorsa. Le undici tracce di Artie entrate in top 40 sono peraltro anche le uniche novità ch’essa contiene, a ribadire una volta di più l’incredibile voglia di musica nuova degli ITALIANI.
ALTRI ARGOMENTI DI CONVERSAZIONE. Per quanto riguarda gli highlander, Fuori dall’hype dei Pinguini Piacioni è appena diventato il secondo album nella storia della musica italiana ad aver trascorso sei anni in classifica senza interruzione, da quando è uscito: sono 313 settimane, a ruota di Re Mida di Lazza che, pubblicato nel marzo 2019, è in classifica da allora, e questo riporta un po’ a quello che si diceva sulla necessità fisiologica di noi giovani di ascoltare sempre la stessa roba scema e banale, però pallosa. Qui metto una notizia a caso su Lazza.
Non so a cosa si riferisca e non mi interessa, era solo un intermezzo colorato.
Vorrei poter dire lo stesso di lui.
Poi, se questo dettaglio vi appassiona quanto a me, sappiate che 47 album su 100 in classifica sono distribuiti dalla megamultinazionale Universal. 25 invece sono di Warner, 22 di Sony. Facendo un (rapidissimo) calcolo, capirete che questo implica che rimangono 6 presunti album su 100 a rappresentare la produzione indipendente italiana, che salutiamo. Ma a proposito di multinazionali:
PINFLOI. Mi pregio di segnalarvi che sono rientrati in classifica The Dark Side Of The Moon (che è solo al n.8 tra vinili/cd/robediplastica: Artie è n.1 anche nella classifica dei cosi rotondi). Mi devo dare dello scemo per non aver fatto due più due: il motivo per cui l’amato prisma era stato fatto sparire dai negozi e dall’Amazzonia era che bisognava togliere il vecchio marchio dal disco, dopo la cessione dell’intera discografia Pinfloida alla Sony, per 400 milioni di dollari (Money, it’s a gas, eccetera). E non solo: è rientrato in classifica dopo tre anni e mezzo persino The Wall, che mancava dai tempi del lockdown per il Covid. Vi ricordate, quando tutti si chiedevano “C’è qualcuno là fuori?”. Shh, non rispondete e vedrete: andrà tutto bene.
Grazie per aver letto fin qui. A presto.