Il punk che rigenerò il rock, il santo punk che liberò tutti e continua a farlo, il punk delle t-shirt che rendono chiunque un ribelle citazionista, il punk eroe militante dei centri sociali, il punk debito estetico che riscatta ogni dito medio, da quello di Cattelan a quello dei selfie delle amiche in serata “pericolosa”. Il punk fucina di slogan e di stilisti e di pubblicitari, il punk che quest’anno ci arriverà addosso nella più implacabile, furibonda orgia di celebrazioni tese a tirare su soldi e like. Perché paradossalmente niente ha avuto un futuro così lungo come il “No future”, niente è perennemente di moda come la moda che le ha odiate tutte, niente è così dibattuto come il movimento che disprezzava i dibattiti (a Milano qualche sociologo se lo ricorda ancora). Perché il punk è un mito fondante, è il Prometeo della cultura giovanile – e come Prometeo, promete, promete. Che importa, se mantiene o no.
Parlando di miti, in questi anni va molto di moda mettere al centro del punk i Ramones – che del resto hanno le magliette migliori, col nero che sfina – e l’epopea gloriosa del favoleggiatissimo CBGB’s (ripetete con me: sibigibis, sibigibis, sibigibis). Mentre John Lydon è pieno di imperfezioni: è grasso, è vivo, è ricco, è lucido – no, non va bene. Per non parlare poi degli altri piccoli eroi dimenticati (faccio solamente il mio nome del cuore: i Ruts D.C.).
Se non che, chi scrive era bimbetto quando di punk si cominciò a parlare, e ha la precisa sensazione che senza la grancassa londinese, con la sua spettacolarizzazione, non ne avremmo mai saputo niente. Perché Londra ha sempre avuto un vantaggio competitivo su Milano e Parigi nel diffondere le sue mode: l’alleanza con la musica. Dagli anni 60 in poi, la sinergia è stata impeccabile, permettendo di lanciare praticamente ogni anno una nuova tendenza nei suoni e nei vestiti (un continuo rimodellarsi, di cui l’emblema compiuto è David Bowie): qualcosa che a ogni nuovo calendario facesse sembrare disperatamente vecchio quanto era venuto prima. “A metà anni 70 di colpo tutti dissero che noi Genesis, come gli altri gruppi progrock, eravamo dinosauri”, rifletteva Phil Collins nel documentario Sum of the parts; “eravamo da museo. E avevamo 25 anni”.
Inevitabile che i Sex Pistols, punk band per antonomasia, nascessero in una boutique, il notorio (e leggendario) (come tutto) Sex di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, in King’s Road, nel 1975. Cionondimeno anche il punk pareva destinato al trattamento da lui riservato ai predecessori, “la dannata Beatlemania” (definizione dei Clash), la psichedelia (“Odio i Pink Floyd”, la tshirt di Johnny Rotten), i figli dei fiori (“Non fidatevi degli hippie”, slogan di McLaren), l’odiatissimo prog-rock di quelli che usavano – orrore! – più di tre accordi. Sta di fatto che dopo la fiammata autodistruttiva sia della band portabandiera che dei suoi componenti, anche il declino del punk era dato per certo, viste anche le nuove ondate giunte dal ’77 all’81 (goth, ska, new wave, new romantic). Per quanto riguarda l’Italia, nell’impeccabile e malinconico Costretti a sanguinare di Marco Philopat, il protagonista – per certi versi assimilabile al ribelle senza una causa di Q dei Wu Ming – colloca l’esaurimento definitivo della pila nel 1984 (e la fa coincidere, guardacaso, con un concerto dei furbi CCCP).
Invece, LOL!, il genere più autodistruttivo si è rivelato il più longevo di tutti. Il suo antagonismo, la “attitude” aggressiva e anarcoide sono usciti dalla loro epoca diventando ingredienti chic per chiunque, da Billy Idol, il “punk di Mtv” degli anni 80, agli accattivanti Green Day negli anni 90, fino a Skrillex, il dj amato dai mediapeople più cool. Non c’è stilista che non abbia nel suo mazzo la carta punk, da giocare al momento giusto. E rivendica una radice punk Lady Gaga, la butta in punk Miley Cyrus – che cavolo, si fa presto a sfoggiare una cresta, alzare un dito medio e buttarsi a pogare come allegri scimmioni. Perché il progetto di McLaren e Westwood ha prodotto l’unico stile che non va mai fuori moda. Il fascino di quello slancio provocatorio non risulta mai stantio e ha ottenuto il subdolo effetto di ribadire la centralità londinese, dal grido London Calling dei Clash (col loro proclama “I’m so bored with the Usa”) al God save the Queen intonato dai Sex Pistols sul Tamigi (…e dove se no). Proclamatosi iconoclasta, il punk ha creato icone inscalfibili, dal maledettismo abissale di Sid Vicious alla militanza di Joe Strummer, dal ghigno caustico di Johnny Rotten alla Regina Elisabetta stessa, operando in senso ironicamente patriottico.
Quanto allla rigenerazione sonora operata dal punk, sì, forse durò due-tre anni, ma non ebbe nessun effetto sul percorso della black music, non impedì agli odiati Pink Floyd di fare il bottissimo nel 1979/80 con The Wall, non ebbe una palpabile influenza sonora sulla debordante ascesa di Bruce Springsteen. Il punk che come Gesùnostrosignore muore per redimere la musica diffondendo la parabola della sua immediatezza ha prodotto e continua a produrre una quantità di inutili cani non inferiore a quella che circola nelle musiche più dichiaratamente commerciali, e se davvero ha “cambiato la musica per sempre”, ascoltando il panorama attuale non è che venga spontaneo ringraziarlo commossi – né lui né l’altro genere stravecchio e bolsissimo che sopravvive a se stesso e nonostante questo viene propagandato come iperfigo, moderno, rivoluzionario. Oh, sì, fatti avanti, hip-hop: si parla di te.
Di fatto, curiosamente, uno dei testi più apprezzabili sull’impatto del fenomeno è venuto dalla grande pentolaccia del rock, Bono degli U2, bersaglio mobile di tutti i duriepuri: con un pezzo che non somiglia in niente (saggiamente) al rock dei Ramones, il brano The miracle of Joey Ramone parla di una “music so I can exaggerate my pain, and give it a name”. Ma si può continuare a farlo con gli stessi nomi, gli stessi suoni, le stesse magliette, la stessa attitude (forse il cliché più triste) 40 anni dopo? E si può continuare a celebrarlo, ignorando volutamente che è esattamente quello che non andava fatto?
Tutto questo discorso a me fa venire in mente il momento in cui NERD è diventata una bella parola, uno status a cui tendere o di cui andare fieri.
I Sex Pistols se vuoi sono stati l’equivalente di The Big Bang Theory.
Che il maxi carrozzone mediatico abbia negli anni cercato di appropriarsi di questi due fenomeni culturali involontari non cancella, secondo me, il fatto che ci siano state aree di disagio giovanile fatte soprattutto di aspetti negativi da cui però sia uscito fuori anche qualcosa di buono.
E nessuna consacrazione postuma potrà credo cambiare una virgola di quanto di brutto e di bello ci fosse nel concetto iniziale.
La cosa più punk, oggi, credo sia sbattersene di chi o come celebra il punk.
Eh, fosse facile. Vedremo.
PS
Ai Sex Pistols come Big Bang Theory non ci avevo mai pensato. E tuttora fatico 😀
guarda, io della storia del punk non so nulla di nulla quindi non entro nel merito [però, per dire, a me il disco dell’anno scorso dei Rancid è piaciuto un bel po’]. ma al di là di tutto quello che si dice da quarant’anni sul punk sui media, specializzati o meno, c’è anche la questione che il punk è l’unica musica dal vivo che ti puoi permettere negli stati uniti fino al college. quello, e qualche garage band
In tal caso forse è giunto il momento che io vada e sfoderi il mio repertorio di brani da vecchi musical MGM rivisitati per chitarra e voce. Non mi metterei a più di 4 dollari a biglietto.
Ci provano da cinque anni o forse dieci ad usare altro, tipo tirar via il punk dal cyberpunk (vaporwave, seapunk, glo-fi). E quasi tutto a me personalmente fa schifo, sebbene il debolissimo messaggio politico è una bella cosa. Che si senta poco o niente dico, ché ‘sti cazzo di americani (in fatto di largo all’avanguardia i nostri bwana inglesi sono MORTI come la vecchia politica) sanno solo parlare di politica
Forse hai ragione, ancorché debolissimo è una bella cosa.
Magggistrale come sempre il Dr. Mad. Nel 1976 i dischi del rock inglese erano diventati davvero brutti e la Perfida Albione riuscì agilmente a piazzare questo nuovo, geniale prodotto a noi masse adoranti. Perfino i Police furono lanciati come punk band e, almeno fino a Landlord, ci credettero un po’ anche loro stessi.
Solo una piccolissima cosa, Dr. Mad: “phoney” significa “falso, fasullo, ipocrita” non “dannato”.
(Personalmente, festeggerò il 40° del punk nell’anno giusto, il 2017)
Grazie per i complimenti – e hai ragione su phoney – che però è un termine che contiene una carica di odio che agli aggettivi italiani che hai messo (che pure non sono leggerissimi) manca. Se esistesse una versione più carica di “fasullo”, l’avrei usata; “dannata” mi sembrava più secco.
vero.
🙂 in questa giornata triste
bel pezzo, signor Maddeddu, a cominciare dal titolo, azzeccatissimo.
io non ero un bimbetto, allora, né un vecchietto, adesso.
dunque ricordo.
mi permetto, insieme alle congratulazioni per il treccani award ( che mi ha portato a conoscerla, e li ringrazio ), di segnalarle che un gran gruppo, THE TUBES, sin dal primo LP, 1975, cantavano i WHITE PUNKS ON DOPE, mentre poco più tardi, in un LIVE memorabile ( li ho sentiti anche io in concerto, facevano vero fumo e sudore ) celebravano l’intera poetica del suo brillante pezzo di oggi: I WAS A PUNK BEFORE YOU WERE A PUNK. Detesto gli incollaggi, vada ( andano ) a vedere su you tube, o sui siti di lyrics, se volete. Grazie per aver scelto la mia soundtrack di oggi, Valerio.
come sempre nei haiuna visione londocentrica e inglese. Non sono d’accordo, ma ti amo lo stesso
Sagoma d’un Madeddu, mi piacerebbe rivederti e raccontarti (ri-raccontarti?) di quando incontrai alle Poste di Hersham – andavo a ritirare ingiustamente l’elemosina della social security … – il leggendario Jimmy Pursey degli Sham 69. Gli dissi “Hi Jim”, e lui rispose “Hi”. Uno dei più bei dialoghi della mia vita. If the Kids are United, They will never… Ah, che carino l’inverno 78-79. E al ritorno, pure la cavalcata verso quel milan-.bologna zero a zero, col comizio di Rivera e l’agognata stella…
Gli Sham 69, che avevo visto all’Electric Ballroom di Camden Town, li ho poi rivisti a Milano, ma senza il Jimmy