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Come Chuck Berry copiò Marty McFly

Chuck Berry era vecchio. Ma non il giorno in cui è morto, a 90 anni. No! Era vecchio quando ha inciso il suo primo successo, Maybellene, nel 1955: un debutto a 29 anni, età mai raggiunta da molti dei suoi eredi angosciati e intossicati. All’epoca aveva già famiglia, diversi lavori alle spalle (operaio, parrucchiere, fotografo) e quattro anni di detenzione non appena diventato maggiorenne, per aver rubato un’automobile insieme a due amici puntando una pistola sul proprietario; solo nel 1952 si era messo a suonare con qualche band, sempre per tirar su un po’ di soldi. Non è troppo strano che sia vissuto fino a 90 anni invece che morire a 27: il suo rock’n’roll è sempre stato una celebrazione della vita. A differenza di quanto accade con Elvis, Little Richard o Jerry Lee Lewis, nel suo repertorio non trovano spazio aggressività o un umor nero inconsolabile. Le sue introduzioni di chitarra su due corde, tutte uguali, sono un “pronti via” per una corsa da qualche parte (oltre che un ingegnoso sistema per essere immediatamente riconoscibile alla radio quando partiva il pezzo).Chuck_berry_1

Probabilmente, in senso stretto, non ha inventato il rock’n’roll. I bianchi Bill Haley ed Elvis Presley erano già entrati in scena, anche se in fondo solo da qualche mese. Però è il nero trentenne Berry a dar forma e sostanza al genere. È lui a raccontare storie ai ragazzi, a parlargli di automobili, di scuola, di America. E forse per questo motivo, quando alla fine degli anni 50 una serie di coincidenze travolge la prima ondata del rock, dal servizio militare di Elvis alla condanna del dj Alan Freed per aver trasmesso alla radio dischi in cambio di denaro (ahaha!), dall’arresto di Jerry Lee Lewis a quello di Chuck Berry, sono le canzoni di quest’ultimo a reggere alla rapida usura del tempo, fornendo ispirazione agli inglesi Beatles e Rolling Stones che le mettono nei primi album (…e, nel caso di Come Together dei Beatles, anche negli ultimi). chuck-berry-michael-j-fox

Di fatto, il paradosso di Ritorno al futuro in cui Chuck Berry scrive Johnny B. Goode perché la sente al telefono mentre viene suonata da Marty McFly, è meno paradosso di quanto sembri. Il rock nasce come musica nera adottata da bianchi, o nasce bianco e irrobustito dai neri? Forse tutte e due. La prima epifania di Berry può esser fatta risalire a una sera dei primi anni 50 in una sala da ballo in cui accompagnava Johnnie Johnson e attaccò lì per lì una vecchia, bianchissima canzone country and western: il pubblico rigorosamente di neri si mise a ballare euforico. chuck-berry-new-album-news-2a7vc3dn

Charles Berry nato a St. Louis nel razzistissimo Missouri, a 30 anni era perfettamente in sintonia con una nuova generazione di americani, sia bianchi che neri. Però forse proprio in quanto nero (e tra l’altro, con sangue pellerossa come Jimi Hendrix) poteva concedersi il lusso di scavalcare ogni buona creanza e dare voce alla loro comune voglia di divertirsi, guidare macchine di lusso, fare sesso con le Sweet little sixteen (…ma anche più giovani, come dimostra anche la seconda condanna nel ricco curriculum dell’artista). E chiedere cortesemente sia alla musica classica (Roll over Beethoven) che al modern jazz diventato pretenzioso (Rock and roll music) di farsi da parte perché era arrivato lui, un ragazzo non molto bravo a scuola ma capace di suonare la chitarra come una campana – e per chi suonava la campana, presto lo avrebbero sentito un po’ tutti: “Era l’America che dava la sveglia al mondo” (Keith Richards). berry clapton richards

Ma forse Berry crea (e da autore, non da interprete) la musica più americana di tutte perché non ha sviluppato un vero rancore nei confronti dei bianchi. Non è mai stato veramente amato dai suoi compagni di pelle, un po’ perché in quegli anni la dottrina prevalente era essere un role model più che un gangsta (mentre lui nella vita è stato in galera per tutti i capi del codice penale eccetto l’omicidio). Ma anche e soprattutto perché gli piaceva suonare per i bianchi (e giocare con le vise pallide) perché aveva un’attrazione irresistibile per quella parte di umanità che da giovane gli si negava: crescendo in un quartiere solo per neri, aveva visto i primi bianchi solo a 3 anni. E rimanendone esterrefatto: “Erano pompieri, l’unica spiegazione che riuscii a darmi era che la paura del fuoco avesse questo effetto sulla loro pelle”. Quando poi da adulto capitò a New York, vide con altrettanto stupore che i bianchi guardavano i neri negli occhi, invece che distogliere lo sguardo sdegnosamente. Tutto molto diverso dal sud, dove la sua prima band non trovava dove dormire né dove mangiare, adattandosi a dormire sui pullmini e ottenendo pranzo e cena solo con l’accortezza di chiedere cibo dalla porta sul retro dei ristoranti.

All’epoca, raccontava Johnson, “Nessuno pensava a fare dischi. Non c’era modo di farci dei soldi, per noi neri. Ma Chuck aveva questa idea fissa che gli frullava nella testa”. Le case discografiche preferivano artisti bianchi – per loro, c’era un pubblico; mentre pochissime radio suonavano, sporadicamente, brani di artisti neri. Tant’è che alcuni degli ingaggi del primo tour saltavano il giorno stesso del concerto nel momento in cui il rocker si presentava ai proprietari dei locali: “Scusaci, ma non potevamo immaginare che Maybellene fosse cantata da un negro”. Ah, caspita – vuoi vedere che era per questo, che passava per radio?berry lennon

Non è mai il caso di santificare le rockstar, e forse Chuck Berry meno di tutti: era un furbo opportunista con un palese fiuto per il business, abbastanza accorto da cambiare le parole della sua canzone-autobiografia Johnny B. Goode (da “a colored boy” a “a country boy”), e per divertire il pubblico si inventava duck-walk e spaccate che i bluesman trovavano deprecabili: ben prima che capitasse a Bob Dylan, il pubblico del festival di Newport (allora dedicato al jazz) stigmatizzò la sua innata buffoneria nonché i suoi selvaggi fan. Ma per quanto riguarda la sua chilometrica fedina penale non è esagerato ritenere che le autorità lo abbiano marcato particolarmente stretto perché i giornali erano scandalizzati dalle scene di isteria che si verificavano ai rock’n’roll show in cui era la star. Perché per esempio, una pratica comune nei teatri e nelle ballroom dove lui andava a esibirsi era tendere una corda in mezzo alla sala in modo che la parte bianca e quella nera del pubblico non si mescolassero, Nel casino, mentre la gente ballava, la corda cedeva, e capitavano cose che facevano inorridire i genitori d’America. berry rose

Ma una cosa è certa: senza Chuck Berry, molto probabilmente non ci sarebbero stati i Beatles e i Rolling Stones. E piaccia o no, senza di loro il rock’n’roll non si sarebbe evoluto in un’altra cosa, durata molto più a  lungo di quella prima estemporanea fiammata a fine anni 50. E così come c’è Chuck Berry nei Beatles e nei Rolling Stones, c’è anche nei Beach Boys e in Jimi Hendrix, nei Led Zeppelin e in Bruce Springsteen e (a suo modo) nei Sex Pistols, nei Motorhead e negli AC/DC – che diamine, c’è persino nei Depeche Mode, nella loro versione di Route 66.

Da qualche anno però non c’è più, è sparito: gradualmente le rockband di questo secolo – specie quelle indie, per qualche fastidioso motivo – nel loro avantismo depressoide hanno dechuckberryzzato la loro musica. E potrebbe essere una spiegazione plausibile del fatto che siano pesantissime e noiose come la morte, e abbiano tumulato il rock prima ancora che venisse tumulato Chuck Berry. Ma beninteso, è un’umile opinione.

3 Risposte a “Come Chuck Berry copiò Marty McFly”

  1. ti dirò: il coccodrillo meno banale e più interessante letto in giro. poi, per quel poco che ne capisco, è anche il più condivisibile
    ha ragione dantheman: anche per me l’ultima parte è sacrosanta, ma non me la farò tatuare sulla schiena

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