«La madre di Richie era disposta ad ammettere che da ragazza aveva lanciato la sua parte di strilli per Frank Sinatra, ma come la mamma di Bill, avrebbe messo a morte il rock and roll. Chuck Berry la terrorizzava, e affermava che Richard Penniman, meglio noto ai suoi discepoli adolescenti e non ancora adolescenti come Little Richard, avrebbe potuto spingerla a “vomitare come una gallina”. Sua madre era anche convinta che la smania per il rock and roll nel Paese sarebbe presto finita. Richie sentiva che c’era un potere in quella musica, un potere che sembrava quasi di diritto appartenere a tutti i ragazzi smilzi, ai ragazzi grassi, ai ragazzi brutti, ai ragazzi timidi, in definitiva ai perdenti del mondo. Ci sentiva un voltaggio folle ed esilarante, pericoloso ed esaltante».
(da It, di Stephen King)
Prima che io nascessi, Little Richard era ampiamente finito, e da parecchio anche. Aveva persino già cacciato Jimi Hendrix (all’epoca, quasi un suo sosia) dalla sua band di rock revival: “Io e un altro tipo eravamo stanchi di mettere l’uniforme, ci mettemmo un paio di belle camicie. Lui ci convocò dicendo “Io sono Little Richard. IO, sono Little Richard. Sono l’unico autorizzato a essere bello. Via quelle camicie”.
«Dal grammofono di mio padre iniziarono a venir fuori grandi cose. The Moonglows, Frankie Lymon & The Teenagers, The Platters, Fats Domino. Poi scoprii la miniera d’oro. Tutti Frutti di Little Richard. Il mio cuore quasi scoppiò per l’eccitazione. Non avevo mai sentito niente che somigliasse a questo. Riempiva la stanza di energia e colore e sfida sfrontata – avevo sentito Dio. A quel punto, volevo vederlo».
(David Bowie, 1992)
Anche se filologicamente non è vero, ho sempre amato l’idea che il rock’n’roll sia cominciato con la frase “A-wop-bop-a-loo-bop, a-wop-bam-boom”. L’irrompere di una sensazione da gridare a tutti i costi, anche se non esistevano le parole per dirla. Uno che deve aver capito questa cosa è Adriano Celentano, che per decenni ha cantato i pezzi di Little Richard inventandosi le parole. Ho anche amato un pochino l’idea di aver lavorato per qualche mese in un giornale che si chiamava Tutti Frutti, anche se di rock’n’roll onestamente, ne ospitava pochino. E che alla fine, non mi ha dato i soldi che mi doveva. Un po’ come tutti quei ragazzi, specialmente neri, che venivano gabbati dai manager, all’inizio del rock’n’roll.
E in effetti a Little Richard devo essere grato un’ultima volta: perché andandosene proprio ora mi dà l’occasione non solo di ricordare due o tre cose dette su di lui. Ma anche di dirne una io, una cosa che mi affligge. Sì, Good Golly, mi avvilisce e mi irrita, oh my my. Perché posso parlare di gap generazionale musicale, senza essere parte in causa. Mi manca moltissimo l’energia entusiasta e furiosa del rock’n’roll, e quell’energia inizia con lui che martella un pianoforte (!), e non con Chuck Berry e nemmeno con Elvis, per i quali comunque stravedo.
Nota per gli eventuali ventenni: li ho scoperti alla vostra età, mentre già era iniziata l’era della drum machine Roland TR-808, quella che oggi insieme all’autotune impreziosisce la musica di modernità ipercool.
«Sentivo Chuck Berry, Little Richard ed Elvis su Radio Luxembourg. Nessuno sapeva se fossero bianchi o neri, non ci si poneva la questione. Il primo disco che ho mai comprato, o forse rubato, fu Long Tall Sally di Little Richard. E non avevo nemmeno qualcosa su cui sentirlo, però lo volevo a tutti i costi».
(Keith Richards, 2003)
Quando scoprii i tre padri fondatori del rock and roll, tutti e tre praticamente assieme (nonostante Chuck Berry fosse evidentemente presente nei pezzi dei Rolling Stones e Little Richard fosse uno dei punti fermi dei Beatles, volendo fino a Helter Skelter), Elvis era già mortissimo. E suonava stravecchio quanto oggi. In un certo senso era come guardare le vecchie comiche in bianco e nero, coi movimenti tutti a scatti – la stessa sensazione che oggi i ventenni provano ascoltando i Beatles. Ma tutta quella roba gracchiante e spesso incisa in modo approssimativo, aveva una comunicativa primordiale, irresistibile.
«Little Richard è stato uno dei grandi di tutti i tempi. La prima volta che lo sentii fu perché un mio amico era stato in Olanda e aveva preso un 78 giri con Long tall Sally su un lato, e Slippin’ and slidin’ sull’altro. Ci spazzò via il cervello. Nella nostra vita non avevamo mai sentito nessuno cantare in quel modo, con quei sax che suonavano come impazziti».
(John Lennon, 1975)
Oggi il rock’n’roll non c’è più, come i film western. Così, ascolto più rap che pop. Del resto l’hip-hop l’ho visto e sentito nascere, cambiare, finire, riprendersi, curiosare, decollare. Molte cose continuano a piacermi, ma una cosa mi stupisce dolorosamente dell’hip-hop degli ultimi dieci anni: più è minaccioso a parole, più è moscio musicalmente.
Ogni tanto decido arbitrariamente che ci sono due motivi fondamentali: sia i rapper che i loro PRODUCERS sono stracarichi d’oro, cocaina e finta coolness – e orologi brutti. Così sono molli e strafatti. Il problema è che lo sono anche la maggior parte dei loro ascoltatori, che in questo somigliano più di quanto credono ai loro genitori, molli e strafatti di qualcosa, e in questo caso sto parlando della mia generazione, vedete? Non è un confronto dal quale nessuno esca migliore. Ma poi scarto queste risposte sciocchine, e mi arriva la risposta che temo più vera.
Ed è che quest’energia oggi non la vuole nessuno.
Che poi, dai: anche Little Richard presto iniziò a essere strafatto. E guardacaso, più era strafatto, meno era dirompente. Ma di una cosa sono sicuro: nella sua prima fase, quella infuocata, non lo era. Ma soprattutto, in quella prima fase, nessun PRODUCER e nessun consulente di immagine gli spiegavano come essere ipercool. E infatti non lo era. Grazie a Dio.
«I miei eroi erano Marcel Duchamp, Salvador Dalì e Little Richard. Vidi Little Richard al Brixton Odeon. Doveva essere il 1963, perché i Rolling Stones aprivano il concerto per lui. Era meraviglioso, c’erano gli Stones per primi, poi Bo Diddley, e se ricordo bene Duane Eddy, infine Sam Cooke a chiudere la prima parte. Poi qualcuno di incredibile, e POI Little Richard. E Little Richard era semplicemente irreale. Irreale. Amico, non avevamo mai visto niente di simile».
(David Bowie, 1983)
Non ci sarà mai più niente di simile.
E questo mi dà un fastidio terribile. I can’t help it. The boy can’t help it.
Mi piace sempre leggere quello che scrivi e condivido molti dei tuoi punti di vista e anche in questo caso è così, nonostante non sia mai stato un grande fan dei “padri fondatori” pur percependone a pelle ancora adesso la potenza deflagrante e sebbene non sia un grande ascoltatore di hip-hop… (qui scatta il) MA.
Ma non posso fare a meno di chiedermi: qualche volta ti hanno pagato per quello che hai fatto o vivi di stenti?
<3
Rema, la risposta è: ambedue. 😀
Grazie!
Grande Little(ahaah)! Bellissimo e condivisibile il tuo pezzo. Personalmente da anni ormai trovo speranza solo nel Country( quello piu´genuino, non la monnezza di Nashville).