«Si dubita di tutto, ma si è disposti a credere ancora a qualcosa, purché sia incredibile. Come ci difenderemo? Per fortuna ogni volta che l’uomo ha forgiato una nuova spada, ha poi sempre anche trovato uno scudo».
Fine. Massimo Gramellini, Corrierotto, 26 settembre 2019, 06:53 – modifica il 26 settembre 2019 | 07:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA.
Come la risolve bene.
Vedete, è questo che fa la differenza.
Chiuderla in fretta con una piroetta e un inchino. E aspettare che i giudici ti dicano che hai spaccato – poi si passa tutti ad altro. Se poi sei uno di quelli che viene trapassato dalla spada, si vede che non spaccavi abbastanza. Se, tipo, il nazismo – o ancora meglio, Stalin, che è durato molto di più – spacca te, peccato. Speriamo che almeno avessi una bella frase su cui contare prima di essere schiacciato.
(…«Avere bisogno di frasi motivazionali per andare avanti», cfr. Bugo).
Va bene, la sto prendendo larga (e un po’ grama, vero?). Perché cosa c’entra tutto questo con un’indagine, uno studio, un sondaggio sulla musica?
Il punto è che quello che dice l’indagine, il titolo della notizia, che è sempre quello che detta legge, non sembra vero. Eppure deve esserlo, non ho motivo per dubitare che lo sia, tutto sommato. Ma pur non occupandomi di cose importanti come Gramellini, non riesco a risolverle con un caffè e una frase motivazionale per andare avanti.
Ora vi spiego meglio.
La musica più ascoltata in Italia è il pop, si evince dal nuovo rapporto dell’IFPI (i discografici del mondo).
La musica più comprata in Italia è il rap, dicono le classifiche della FIMI (i discografici d’Italia).
L’ho messa giù in modo che la contraddizione fosse già un po’ sgrovigliata (disaggrovigliata) (degrogliata) (sono Groot).
Questa settimana abbiamo Mattoni di Night Skinny, coi suoi 26 rapper inclusi nella scatola, al n.1 dei presunti album. Nella top 10 attuale ci sono anche Mambolosco (n.3), il Machete (n.4), Post Malone (n.6), Rocco Hunt (n.7), Junior Cally (ex n.1, ora n.8), Salmo (n.10). Al n.2 c’è un ex rapper convertito al reggaeton da chiringuito, Fred De Palma. Ma il pop vero e proprio ora come ora ha un solo nome, ed è Ultimo.
Tra i sedicenti singoli, poi, il Machete batte un colpo con Yoshi di Dani Faiv, ThaSupreme, FabriFibra più J Balvin, di nuovo al n.1 in versione remix.
Forse allora le due cose sono diverse. La musica pagata, vs quella ascoltata. Se leviamo il caso fragoroso di Ultimo, quest’anno abbiamo visto al n.1 dei presunti album – e per pochissimo tempo – il pop di Jovanotti, Fedez, Coez, Irama, Mahmood. E vedete da voi come qualcuno di questi, con uno spintone (molto forte, eventualmente, ma meritato) potrebbe essere ributtato nel campo rap nel quale ha pascolato. Chi dà le etichette di rapperia e poppismo? Wikipedia? Il Codacons? Paola Zukar? Come vorrei saperlo. Tutto quello che posso ipotizzare è che il pop si prenda la rivincita sul rap nelle grandi praterie del Gratis. Viene ascoltato tramite
- la radio, che ha ancora un suo stolido strapotere perfettamente anni 80 sulle genti e, mi pare di capire, sta guadagnando terreno dentro gli smartphone.
- Tramite YouTube, perché i video rappusi sono meno attraenti (non che quelli pop).
- Tramite la tv, che butta nelle case gli Amici di Amici e gli Spaccatori di X-Factor.
Ma se è così, potremmo persino concludere che il rap, caro vecchio 40enne in braghette, è una musica per chi paga moneta sonante, per le élite snob e radical-chic che leggono Noisey e quell’altro coso che rotola. Mentre noi, il POPOLO a lungo preso in giro dai verbosi di tutte le epoche, tendiamo le orecchie nel nulla per sentire consolanti melodie – agratis. Parole che ci parlino del vento, del sole, delle nuvole e di come tutti ce l’hanno da sempre con noi. A differenza dei rapper, che tutti ce l’hanno pure con loro, ma nei loro pezzi il vento, il sole e le nuvole non li citano mai, solo la nebbia del fumo, ghgh, il fumo, ahaha, il fumo raga, skrrt, il fumo, bitch. Ok, anche altre due o tre cose però che bbbello il fumo. Il fumo sta al rap come il mare sta alla canzone d’autore.
Ma la cosa che trovo ancora più interessante del rapporto, è che individua nei 35-44enni la fascia che spende più soldi nella musica. Secondo un’indagine Verto Analytics sugli utenti americani, la piattaforma più sbarazzina e giovanile di tutte è Spotify, che vanta un 26% di ascoltatori sotto i 24 anni. In Apple, la percentuale scende al 17%. E se volete, vi dico pure che il 46% degli ascoltatori di Spotify ha più di 35 anni. Però, come forse avrete notato sopra, il rap italiano crolla sopra i 25 anni, e tutto sommato non ci sarebbe troppo da stupirsi (anche se personalmente mi stupisco del fatto che tutti quei rapper che si rivolgono apertamente a ragazzini maschi con fantasie di onnipotenza sessuale, economica e legale non notano che i 40-50enni italiani hanno smanie identiche a quelle dei loro figli 12enni, basterebbe adattare un po’ i testi).
Quello che sto tracciando, vezzosamente come in questa righina rossa sul grafico, è che la musica, nonostante il violento ribaltamento di carte in tavola degli ultimi tre anni, tra classifiche e improvviso cambiamento di strategie discografiche, continua a essere tenuta vigorosamente in piedi da quella fascia adulta che ha del resto anche i soldi per i concerti.
Non mi pare che le ultime tre case discografiche ne stiano tenendo conto. Stanno investendo parecchio in giovani artisti dei quali si liberano non appena hanno portato una generazione fuori dall’adolescenza. Perché se nel calcio e nel tennis si prende atto che il vigore giovanile dei 20enni non è abbastanza per far fuori i vecchi Federer e Nadal e Messi e CristianiRonaldi, nella musica, non essendo uno sport né un’arte (altrimenti non se la menerebbe tanto con la coolness), l’idea non è tollerabile. Quindi li si nasconde alla vista.
Ma detto questo, il pop, in un Paese che ha negato il n.1 persino a Ed Sheeran, come si arrabatta?
Immagino che la prima risposta sia: in una produzione più dispersa, che non entra in classifica. Gli ascoltatori di rap si concentrano di settimana in settimana sulle nuove uscite, tutti addosso come gli squali fino a che non hanno spolpato l’album in una settimana – a meno che non sia Salmo, il cui Hellvisback è in classifica dall’ultima volta che il Milan ha vinto un derby. Le nuove uscite cominciano a essere tante, i rappusi italiani da classifica sono certamente sopra il centinaio, non c’è mai stata così tanta abbondanza di un genere nel nostro Paese nemmeno ai tempi di Nilla Pizzi e Gino Latilla.
Ma la seconda risposta è: l’usato sicuro. Gli appassionati di rock già lo fanno, hanno imparato da tempo a rifugiarsi nei Queen, in Bruce Springsteen, Guns’n’Roses, Joy Division e ovviamente i Pinfloi (e gli altri, e gli altri, e gli altri) – oppure nelle nicchie (“Uh! Una composizione contemporanea corrucciatissima di Jonny Greenwood per violino e 68 archi assortiti! Delizia!”).
Così, alla fine il pop non ha più grandi voci ma un milione di vocette, non ci saranno più Madonne e Michael Jackson ma stanno già venendo a mancare Rihanne e Shakire, e Lady Germanotte e Katy Perry – e qui da noi, evidentemente Ultimo è già un’altra cosa rispetto a Mengoni o Emma. La cosa bizzarra perciò è che il pop è ovunque, eppure esce allo scoperto solo nelle hit dell’estate e a Sanremo, cioè nella sua versione più penosa e pagliaccia. Forse il pop è la DC e Berlusconi ai loro bei tempi: la maggioranza silenziosa. Tutti sembravano con Di Pietro, negli anni 90 (un’idea di Stefano Accorsi) ma invece.
Grazie, buona giornata.
Ma sai cosa? A differenza del jazz, del rock’n’roll, del punk e del rap e del [aggiungi genere] il pop non è mica un genere. Non “nasce dai bassifondi”, non è “espressione di una cultura giovanile”, non è “rottura”, e poi non evolve, non rimette in discussione i propri canoni smontandosi e rimontandosi sottosopra e dentrofuori, non cerca di “tornare alle origini”. Il pop è eterno, immutabilmente sempre mutante eppure sempre uguale a sé stesso, sempre pronto a cogliere i fiori che nascono dalla cacca e farne ghirlande che profumano e piacciono a tutti e che una volta appassite lasciano il posto ad altre ghirlande. Il pop è un mostro di frankenstein deodorato. Il pop vince sempre!
Che dici: ho scapp…pardon – spaccato?
Scusa, sempre lo stesso rompiballe.
Dimenticavo di aggiungere che, poiché il pop mi è mostro di frankenstein, indi vivo, ma al contempo non-vivo, non si nutre (di consensi) (?), cannibalizza, tuttalpiù. Il suo essere non vivo e cannibale fa sì che non necessiti nemmeno di fan(atici) che fanno di tutto per tenerlo in vita anche quando ha tirato da tempo gli ultimi (vedi jazz e rock).
Che la ragione per tenere in vita certi cadaveri sia poi quella di farne uno specchio di Dorian Gray è un’ipotesi per la quale propendo, appartenendo alla categoria, ma anche boh (grande Jova!). Moriremo come abbiamo vissuto: al di là delle nostre possibilità di far sì che a qualcuno interessino minimamente questi argomenti.
Dai cazzo, se non ho spaccato adesso, davvero io non
Tutto molto ben argomentato 🙂
Ma non riesco a essere d’accordo fino in fondo perché il pop in questo secolo è diventato un genere.
Mi arrischio a fare un esempio sul momento (probabilmente mi pentirò): Shape of you di Ed Sheeran è manifestamente pop, intenzionalmente pop, perché ne individua i canoni attuali. E persino rispetto a Wannabe delle Spice Girls (che erano evidentemente IL pop di allora) rivela meno compresenze di altri generi (…rifiuto immediatamente l’ipotesi che quel “Mmmmmmmm” evochi un r’n’b che comunque, se anche è tale, è l’r’n’b asettico che iniziò a essere spacciato a fine anni 90).
Il pop di questo secolo, nella mia umile opinione, è un campo noiosamente delimitato. Chissà, forse perché non può più sbirciare sul banco del rock.