AMARGINE

Quadrumane con Disappunto, vol.2 – Ce la cantiamo e ce la scriviamo

(scritto a quattro mani con Francesco Farabegoli, noto anche come Disappunto ma anche come Bastonate) (la sua versione è qui http://bastonate.wordpress.com/2013/11/25/ffpm/ ) (però nella sua versione ci sono i disegnini, nella mia le fotine)

“Il vecchio LP sta tornando in auge – fa notare Geoff Taylor, Ceo della BPI britannica (la nostra FIMI) – e pur essendo sempre un fenomeno di nicchia non è più solo una retro-mania, ma una scelta per tantissimi utenti molto diversi tra loro”. 

Ogni settimana vengono venduti 15 mila Lp e il vinile conta circa lo 0,8 % delle vendite complessive della Gran Bretagna (nel 2007 contava solo lo 0,1 per cento).

Il link da cui è tratto quanto sopra è questo (qui) (non li so mettere, ve l’ho mai detto?) http://www.corriere.it/spettacoli/13_ottobre_17/rivincita-vinile-33giri-lp-raddppiano-ventite-gb-8bcfb3d0-3718-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml e insomma, parla della rinascita del vinile.
La.
Rinascita.
Del.
Vinile.
La prima reazione è: “Oh, no. Non di nuovo”.
(la seconda, pure) (ma più con un senso di “Perché lo fate, perché, perché, perché”.
Rimaniamo un momento sulla prima reazione.
La notizia, sul quotidiano on line sul quale tutti si regolano, ti sbatte in faccia il fatto che il RITORNO IN AUGE DEL VINILE nella patria in cui ti rechi per andare ad ACQUISTARE I DISCHI IN VINILE è dimostrato dal fatto che postacci tipo Sounds of the Universe (ok, Sounds of the Universe è il miglior posto al mondo, ma che c’entra), vendono DISCHI IN VINILE per un totale di sessantamila pezzi al mese.
La rinascita del mercato discografico passa attraverso quanti stronzi, in altre parole?

Conto della serva, basato su una serie di input inseriti gentilmente nell’articolo sopralinkato alla voce “ritratto del fan del vinile”:
uno su cinque acquista un disco una volta alla settimana e
sette su dieci almeno una volta al mese.
Inoltre la media dell’acquirente possiede nella propria collezione 300 LP e 80 singoli
e il 35,3 per cento a sorpresa ha meno di 35 anni.
In altre parole, dei sessantamila dischi al mese quattro sono stati comprati dallo stesso sfigato, che va a compensare i tre decimi degli acquirenti che NON ne comprano nemmeno uno al mese.
Ovvero, possiamo affermare che le persone che comprano dischi in vinile sono circa il numero di dischi venduti e sono sempre quelle.

Vale a dire che in Gran Bretagna, paese che conta 63 milioni di abitanti, 62,9 milioni dei quali abitano a Londra (perché li è un posto figo dove tutti fanno cose fighe che 50 milioni di italiani copiano pensando che così saranno fighi anche loro), la rinascita del mercato discografico in vinile è appesa al filo di quindicimila persone (un inglese su cinquemila), nella segreta speranza che a nessuno di loro venga il tifo o la gonorrea o l’Arsenal in trasferta, o aprile che li blocca in casa impedendo loro di comprare la loro copia mensile di qualche disco quasi sicuramente insopportabile (uno che possiede 380 dischi non ha gusti musicali attendibili, dai).
Si tratta della rinascita più patetica di cui abbiamo mai avuto notizia, stiamo parlando di un volume pari a circa due terzi dei contatti che genera un blog come Bastonate. (…ancorché, il chissàquantopercento in più rispetto a Amargine)

Aggiungiamo carne al barbecue: in quest’ottica assume una dimensione particolarmente folkloristica tutto lo hype legato al Record Store Day. Le uscite in vinile esclusive per il Record Store Day di quest’anno erano circa sessantamila. Il che con una rapida botta di conti ci fa supporre senza cattiveria che il dannato articolo del Corriere sia sbagliato in difetto nel conto delle persone che comprano dischi O, in alternativa, che il negoziante di fiducia di chi scrive racconta palle quando dice di avere smerciato da solo dodici copie del disco dei Black Angels. La più probabile è che siano palle entrambe.
In ogni caso, insomma, il punto è questo. La distruzione dei formati non-così-vintage, il trionfo dello streaming, tutta la musica a disposizione in ogni momento, e bon ultimo il Collezionista InfoiatoTM. Che in Gran Bretagna, la patria in cui ti rechi per andare ad ACQUISTARE I DISCHI IN VINILE eccetera, si compra DODICI DISCHI IN VINILE ALL’ANNO. La buona notizia è che questi numeri sono comunque il doppio dell’anno scorso, vale a dire che nel 2012, quando si parlava -già da cinque anni- del ritorno in pompa magna del vinile, si smerciavano settemilaecinquecento dischi a settimana. Che probabilmente non sono manco un’economia di scala sufficiente a tenere in piedi le aziende che i vinili li stampano, quindi tanto vale iniziare a pensare ad una stamperia clandestina nella propria cantina che tra un po’ ce ne sarà bisogno.

E questa era la prima reazione.
La seconda, anzi la terza (che la seconda era perché, etc.) è: come è possibile, in un mondo in cui (grossomodo) cinque milioni di italiani producono notizie, contronotizie, informazione, controinformazione, informazione di nicchia – come è possibile che una notizia prodotta da una ragazza che non conosciamo, e alla quale non vogliamo alcun male, ci dia così fastidio?
Risposta: perché in questo mondo in cui sembra che le testate e i blog siano migliaia, c’è un quotidiano on line sul quale si regolano grandefratellescamente tutti. Anche voi che non lo leggete.

Vedete, se domani Renzi dovesse dire che da bambino cantava le canzoni di Heather Parisi, la cosa sarà irrilevante per tutto il Paese. Ma se qualche stagista di quel quotidiano on line, pagato/a due euro a notizia, decidesse di mettere la cosa in home page perché oggi ha scritto solo 94 news (79 delle quali copiate da giornali inglesi anche cretini, ma stampati a Londra, quindi cretini ma autorevoli, perché a Londra, ricordate?, tutto è figo), ecco che improvvisamente dieci altre testate giornalistiche, cento siti di informazione vera o presunta, duecento radio, mille siti di intrattenimento gossipforme, cinquemila blog alcuni dei quali musicali, diecimila account di twitter e ventimila account di facebook rilancerebbero, condividerebbero, commenterebbero, ghignerebbero, battuterebbero, polemizzerebbero su Renzi ed Heather Parisi – le Cicale, no, stiamo scherzando, la Cuccarini sì che era gramsciana.

La notizia sul vinile, quindi, completamente insensata e di fatto semiirrilevante per la autrice/traduttrice stessa della notizia, che non si occupa in alcun modo di musica, è lanciata nel pollaio e di colpo causa
1) Dibattito
2) Commenti
3) Riflessioni
4) Articoli di Ernesto Assante
5) Articoli sui settimanali dedicati alla Rivincita del Vinile, che è tipo la Rivincita dei Nerds, film con un budget di 6 milioni che ne portò a casa 60, questo è il pericolo quando butti lì il concetto di Rivincita
6) Apertura di negozi o da parte di qualche rimbambito che usa tutti i suoi soldi per buttarsi nel business “caldo” aprendo un posto che chiama Vinylla Sky o In Vinyl Veritas per poi fallire dopo due mesi, perdere tutti i soldi suoi, della moglie, dei genitori e dell’amico affiliato alla ’ndrangheta, e buttarsi sotto il treno – che è il treno che voi state aspettando da due ore, ed è tutta colpa di quell’articolo, al quale la stagista non pensa nemmeno più. Ma intanto quel treno che doveva portarvi all’appuntamento cruciale col vostro destino non arriva. Lo ha preso (in faccia) lo scemo che ha abboccato alla storia dei vinili. E ai quotidiani on line
7) Articoli di altri giornalisti rampanti scritti il giorno dopo l’apertura del tuo negozio, “una meravigliosa storia italiana”, fiducia nell’economia, in fondo basta avere idee, bravi questi giovani che non stanno lì a contemplarsi l’incavo del ginocchio
8) Interviste degli stessi giornalisti, che ti danno la possibilità di parlare di quanto e come il tuo progetto abbia incontrato la resistenza della solita Italietta che tarpa le ali al nuovo e ai progetti coraggiosi e del tuo piano di trasferirti a Berlino oppure a
LONDRA – dove chi ha talento emerge.

…Abbiamo davvero avuto un’occasione, sapete. A quei tempi, sarà stato il 2007 o 2008, mentre ancora i blogger erano sfottuti anche da chi leggeva Isabella Santacroce, il modo di scrivere e pubblicare tipico dei blog è diventato una parte fondamentale dell’humus culturale del nostro secolo. E forse chi lo sa, forse sarebbe servito qualche buon imprenditore che come succedeva anni fa, subodorasse un interesse economico, e mettesse assieme e sfruttasse questa cosa, tirando su qualcosa di un po’ importante, sicuramente nuovo, probabilmente – come dire – giusto.
È successo?
Qualcuno ci ha provato, ma voi cosa dite? Noi diremmo di no. Quello che è successo, invece, è stato che noi e quelli come noi ci siamo messi a bussare a tutte le porte e siamo entrati dal primo che ci ha aperto la porta, come se avessimo i celerini col manganello dietro al culo. E poi magari abbiamo iniziato ad invidiarci a vicenda: “sai lui scrive sul Fatto, lui scrive sul Foglio, lei ha una collaborazione con Corriere.it”. Leggi i pezzi e ti viene il latte alle ginocchia, ma intanto internet ha trovato il modo di farlo funzionare.

Una volta c’era una parola. Indieblog.
Gli indieblogger erano identificati come dei rosiconi privi di gusto e capacità letterarie che vomitavano odio a cazzo in quanto esclusi dal giro. Era una cosa che sulle prime faceva sembrare tutto così vecchio. Si scopriva che gli eletti, i cittadini di Arcadia, quelli che gli davano del tu alle Muse non erano in grado di mettere in prospettiva le cose. Ma a tutti i livelli, da Ligabue e Vasco che scleravano all’ultimo dei garagisti che sclerava per le tue ironie sul suo video autoprodotto, o il rapper che accusava di boicottare la scena, o il giornalista musicale ben accetto nel club che si offendeva se gli si faceva notare che non si stava guadagnando la pagnotta. Erano tanto preoccupati di difendere la posizione acquisita (insert some LOL here) da non capire che la scrittura dal basso e senza controllo poteva generare dei bei pezzi, sollevare le eccezioni che andavano sollevate.
Non ci volle molto tempo, in ogni caso, per capire che le accuse di rosico avevano un fondamento. D’altra parte quasi tutti quelli che avevano una remota possibilità di collaborare con quotidiani, riviste e pubblicazioni vecchie assaje, l’hanno colta. Altri attendono pazientemente il loro turno.
È passata una mezza dozzina d’anni da allora. I quotidiani occupano un buon venti per cento dello spazio con articoli che a un certo punto fanno menzione delle ripercussioni su twitter di una data vicenda (o che peggio partono da un tweet e ci scrivono sopra un articolo). Twitter, dal canto suo, si riempie quattro sere a settimana di nerd infoiati e appassionati di musica (con quindici anni di scimmia sulla schiena e l’intera discografia dei Gomez) che commentano programmi TV tipo X-Factor o il festival di Sanremo, senza andare a pisciare per evitare di perdere il filo.
È solo il modo che internet ha di difendersi: modellare/abbattere la moralità dei singoli per garantire la propria sussistenza. Moltiplicare il consenso e il dissenso, frazionarlo in piccole parti visibili, far sì che nell’aggregato non contino poi molto, e via di queste.
La televisione è sempre stata lo specchio dell’anima della cultura di cui facciamo parte: forse un tempo volevamo evolverci culturalmente, essere persone migliori, progredire come specie, costruire le dighe.
A quei tempi qualcuno impiegava Carlo Emilio Gadda in Rai, non che la cosa sia probante di per sé.

Un giorno, probabilmente tra le nove e le undici di sera, a un certo punto abbiamo deciso che i libri che avevamo letto erano abbastanza e volevamo soltanto scopare, perdere peso e guardare serie TV. A quel punto i reality hanno spopolato.Prendiamo il Grande Fratello: si basa sul concetto di osservare gente senza alcun talento grattarsi il culo. Ecco, il Grande Fratello spopola nel momento in cui degli inetti guardano altri inetti su uno schermo e pensano “la mia inettitudine è molto più interessante della sua”. O insomma, con la maggior parte delle ragazze delle prime edizioni ci avremmo potuto provare anche noi.
Ed eccoci a chiudere il cerchio: perché il meccanismo per cui gli articoli come quello del Corriere ci interessano è lo stesso del Grande Fratello: è roba abbastanza stupida da farci pensare che potremmo occupare quella posizione molto meglio della stagista che l’ha compilato. Probabilmente è pure vero, ma non è quello il motivo.
Il motivo è che alimenta la nostra passione per i discorsi sulla decadenza del sistema in cui esistiamo, mentre pochi di noi hanno la lungimiranza (e nessuno ha la benché minima intenzione) di pensare a un modello alternativo. Ci diciamo che non serve, che la verità inaccettabile è che non esiste sistema, o modello – risposte argute ed entropiche, che strappano il sorriso complice.
In realtà qualcuno che ha il quadro più a fuoco esiste. Ci sono alcune persone che se ci si mettessero sarebbero in grado di individuare i punti critici, indicarli, persino fare due mosse per cambiare le cose in modo significativo.
Ma queste persone passano la giornata a sviluppare app per l’iPhone.

2 Risposte a “Quadrumane con Disappunto, vol.2 – Ce la cantiamo e ce la scriviamo”

  1. Rivendico il fatto di non averne guardato neanche un minuto dalla prima edizione. Il problema è che non sviluppo app per l’iphone, solo meteorismo.

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