AMARGINE

Il Sanremopardo

Well I dreamed there was an island
That rose up from the sea
And everybody on the island
Was somebody from TV
And there was a beautiful view
But nobody could see
Cause everybody on the island
Was saying: Look at me! Look at me! Look at me! Look at me!
(Language is a virus, Laurie Anderson)

Sanremo è un carnevale. Spesso, come quest’anno, vi si sovrappone. E ha la stessa valenza orgiastica, soprattutto nei media e in chi ci lavora, letteralmente incapaci di pensare ad altro, smaniosi di sprofondarsi (IRONICAMENTE) nel grande bagno di nazionalpopolarità bollato sbrigativamente come trash.
Il carnevale, ci spiegano gli storici, nell’Europa premoderna era un momento di catarsi sociale. Ovvero, il momento in cui il mondo era al contrario, il pezzente si fingeva signore, il contadino si nominava re, la serva si travestiva da dama. Era il momento di massima conferma dell’ordine esistente, della sua invariabilità. Una volta finito, si tornava alla vita normale, a un tempo che si muoveva non in avanti, verso un qualche progresso, ma in cerchio, nell’avvicendarsi delle stagioni.

Ebbene. A proposito di circolarità.
Ci sono buone possibilità che conosciate l’espressione “Fare il giro”. Credo che si usi soprattutto tra critici, quindi se non la conoscete, ecco degli esempi tratti da illustri siti/blog indie. Credo.

“Tutto è così folle, pompato e fuori misura, da fare il giro e diventare brillante e divertente”. (eurogamer)
“Alla CGI così terribile da fare il giro e diventare sarcasmo è necessario inserire quegli elementi classici dei b-movie che piacciono a tutti.” (i400Calci)
“L’incipit sci-fi era così assurdo che avrebbe potuto fare il giro, fornendo lo spunto narrativo per un platform divertente e perfino “desueto” (almeno su PC). E invece no, Infinity Runner corre e corre, ma il giro non lo fa”. (TheGamesMachine)
“Attori talmente sopra le righe (e una furbissima colonna sonora “live”) da fare il giro dello spettro espositivo per ricongiungersi con ciò che è reale”. (OrgoglioNerd)

Penso che si sia capito.
Non so bene chi abbia iniziato a usare questa espressione, ma secondo me dieci anni fa non c’era. È venuta fuori in una fase storica in cui ce n’era bisogno. 

Bene: secondo me, il Sanremo di Carlo Conti fa esattamente questo. Fa il giro.

Conti, che personalmente tollero pochissimo, rispetto a Fabiofazio non ha cercato di portare i valori umani nel festival, la tradizione, l’impegno. E rispetto a Bonolis, non ha cercato il circo Barnum. No, ha fatto un festival uguale a se stesso, ha dato a questo Paese il carnevale per cui sbava. Ha dato al pubblicone il guano di Rtl e della DeFilippi, gli ha dato Albano e Romina, Tiziano Ferro, Biagiantonacci, MiticaGianna Nannini, e comici che fanno battute banali, sceme (come nel caso di Pintus) o copiate (come nel caso del povero Cirilli). La sua mediocrità stilistica è impeccabile, i venti BIG (Bianca Atzei, Lara Fabian, Platinette e altra gente che in 18 casi su 20 non ha mai visto un n.1 in classifica o non lo hanno mai visto in questo secolo) non guardano in nessun modo a musiche più o meno “alternative”. E anche se l’élite dei saputi, degli ilari, delle macchine da tweet non lo dice esplicitamente (perché non può scoprire così il proprio gioco) questo è esattamente quanto chiede anche quel pubblico più avanti che – ocio, sto per citare Aldo Grasso – usa Sanremo “come palestra di agudezas , di battute intelligenti, di osservazioni che nascono dai piaceri proibiti”.

(“agudezas” mi piace tantissimo)

Il Sanremo di Fabiofazio tentava, vagamente, di avere una personalità.
(malauguratamente, la sua)
I suoi concorrenti, i suoi ospiti, le sue vallette – Littizzetto, MiticoLiga, Crozza – non consentivano di “fare il giro”. Perché da un lato non piacciono al pubblicone, al suo Grande Centro – e nel contempo, dividono l’élite, che in genere li schifa. Così, non si diverte quasi nessuno, tranne ovviamente Fabiofazio (“Lucianina!”). Laddove Conti, evidentemente cresciuto nel mito Baudico (rispetto a The Pippo ha meno cultura, meno audacia ma anche meno arroganza e decisamente molto più ritmo) ne eredita il culto dell’Italiona sempiternamente strapaesana che a malincuore fa i suoi passetti avanti, ma con un prudente freno a mano tirato: che tutti vedano, che è un generoso, rassegnato adeguarsi al nuovo. In questo senso, gli sketch di Luca e Paolo sono un capolavoro tattico: Conti ricorda continuamente dei morti, loro due inscenano un siparietto in cui si ironizza blandamente sul continuo ricordare i morti, lui ride come quelli che ricevono il Tapiro di Striscia – e subito ricomincia a chiamare applausi per i morti. Oppure: invita sia la famiglia antipreservativo, sia Conchita Wurst e Platinette (con una canzone straordinariamente brutta e insulsa), poi lascia che Luca e Paolo diano la benevola tirata d’orecchie ai ricchioni che vogliono i diritti.

Luca e Paolo sono forse l’emblema del “fare il giro”. Non ho visto in diretta il loro sketch sul matrimonio. Però un amico che scrive su Avvenire lo ha postato commentando “Geniali”, e l’ho guardato. L’ho trovato molto conservatore, non tanto in senso politico (onestamente non credo di essere particolarmente progressista), ma in senso comico: era proprio uno sketch alla Ric e Gian, da Antenna 3, col pubblico che esplode di felicità in due momenti: 1) “Cosa vuoi di più?” “Un Lucano: adesso lo berrei volentieri”, e 2) “Ti amo!” “Ma vaffanculo!”. Più tardi nella giornata ho visto che su twitter si susseguivano i commenti sullo sketch. C’erano i lapidari, i furiosi, gli entusiasti, i sottili – che erano poi quelli che insistevano che c’era la doppia lettura, la tripla lettura, il sottotesto, il contesto, la platea, il ribaltamento, insomma a quanto pare non mi ha fatto ridere perché non ho le basi della sagacia.

Penso che siano in tanti a sentire le canzoni di Sanremo non più pensando “mi piace” “non mi piace”, ma pensando alla quadrupla lettura. Al fatto che un pezzo cita, omaggia, oppure contrasta la tendenza, oppure è intelligentemente pop o sofisticatamente vintage o mescola i generi o parla di certe cose in un contesto che – tagliamo corto: c’è un germe di opinionismo che spinge a cogliere le meraviglie del metatesto invece che basarsi su “mi piace” “non mi piace”. In questo modo, il plauso percepito è sempre lontano dal gusto della massa. Paradossalmente, anche quando l’élite si traveste da pubblico cafone e pensa, felice, di averne individuato il gusto trash, si ritrova con Anna Tatangelo che se ne torna per l’ennesima volta a casa, nonostante la sua supremazia “social”, conteggiata nel numero di follower. Che è una cosa che mi piacerebbe venisse tenuta a mente da tutti i miei colleghi infoiatissimi col dogma del nuovo – invece niente. E per di più, mi tocca vedere la FIMI che per fare le classifiche mescola le vendite alle pageview. Questo perché nessuno come i geek è capace di intortare chi incautamente li consulta. 

Sicché, Carlo Conti spacca in termini di ascolti perché fa il giro, senza nemmeno bisogno di una Gialappa che, proprio mentre sbandiera il suo distacco, gli regge il sacco: la legittimazione ironica, per sarcasmodipendenza, gli viene data spontaneamente da tutti noi distaccati.

(Berlusconi ci era quasi arrivato, a rendersi irrinunciabile a quelli che si dicevano suoi nemici grazie al clima di beffa continua – più che di lotta continua – che aveva generato. Ma lui non ha avuto la fortuna di vivere in piena era 2.0, di giovarsi dell’uso narcisistico dei social network)

Quello di Conti è un buon Sanremo? No. Perché non esiste, un “buon” Sanremo. Esiste solo un Sanremo che fa il suo dovere, che ci riporta a dove siamo. Oppure uno che non ci riesce – e in questo caso, immancabilmente, non funziona, così come non funziona un Natale senza albero, panettone e regali.

“Sono libera anche con le mie nuove sopracciglia”, si intitola un’intervista ad Anna Tatangelo della principale firma musicale del più autorevole quotidiano italiano. “È il festival dell’ironia”, ammicca Repubblica.it, che la mattina di venerdì in home page ha sedici lanci sanremesi (non 16 link, parlo proprio di notizie con titolone e foto, altrimenti le news in hp sarebbero anche di più) (invece sono solo SEDICI); uno di questi raccoglie i migliori tweet, come del resto li raccolgono lo Huffington Post, o il Fatto Quotidiano. Instancabili, i tre milioni di inviati rivelano eccitatissimi quando “la sala stampa si scatena in ovazioni” per gente che normalmente non ascolta nemmeno gratis. Il turbine di notizie è furioso, ma anche quello di tweet – c’è da rimanere storditi. Ne è rimasto stordito Twitter medesimo: a un certo punto gli account sono impazziti, come non era successo nemmeno durante i Mondiali di calcio (…rendetevi conto). Estraniarsi è quasi impossibile. Io che vi parlo e mi bullo come uno che la sa lunga, ho provato a starne fuori. Non ce l’ho fatta.

(ho la scusa del lavoro, dai)

Di fronte a tutto ciò, direi che questo Sanremo funziona.

E comunque, guai a dire che non lo guardate, l’élite è diventata ferocissima con chi ventila di aver di meglio da fare. Partono accuse di snobismo e controsnobismo, e di immancabile benaltrismo. Certo, è uno spettacolo intriso di comicità stracotta, canzoni che alla radio bypasseremmo in un attimo, presentato da uno che magari ci dà pure noia, eppure siamo lì, a commentare (IRONICAMENTE) che gente del calibro di Nek, Masini e Grignani sta facendo la figura migliore – il che qualcosa dovrebbe dirci, anche solo istintivamente. Ma #Sanremo2015 è esattamente il Sanremo che vogliamo tutti, il gran carnevale orgiastico, il Sanremopardo in cui tutto cambia affinché

(eccetera).

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