“So, softly, a super-god dies” (The supermen, 1970)
E adesso?
Da che parte lo prendi, Bowie? Da che parte si comincia?
Non lo so proprio. Non so nemmeno quale foto scegliere. Quale periodo? Quale particolare? Gli occhi? I capelli? I vestiti? Quale soprannome? Capisco quelli che inizieranno a commentare questa elegantissima, impeccabile uscita di scena parlando di se stessi, dei loro primi ricordi, di quel disco, quella canzone, quel film, quella frase, quel periodo, quel look, quel sodalizio. Perché anche a fare il critico scanzonato, è difficile non essere travolti da tutto quello che David Bowie ha messo nella mia vita, in quella degli altri, nell’immaginario del mondo e nell’arte – e anche se è facile essere enfatici a caldo, io ho davvero sempre pensato che fino al suo avvento, il rock’n’roll (Beatles e Dylan compresi) non se la fosse mai realmente giocata con l’arte vera.
Forse proprio per questo ho la strana sensazione che si parlerà poco di musica nei ricordi che stanno per inondare internet, la carta, la radio e la televisione. La cosa ci sta, sia chiaro: lui era il primo a studiare esattamente con che faccia presentarsi. Eppure a me di David Bowie non ha mai colpito in modo particolare la faccenda del camaleonte, anzi mi sembrava perfettamente normale che cambiasse con le canzoni, perché quelle erano l’importante, era la loro straordinaria varietà a lasciarmi ogni volta un senso di meraviglia. E non solo gli arrangiamenti, i rivestimenti: Bowie, anche quando sembra cercare semplicemente il riff e la canzone di impatto (penso a The jean genie, o a Modern love) non ha mai, mai soluzioni melodiche banali, non si è mai appoggiato sulla strada più ovvia che poggia su quattro accordi, che è invece uno dei crimini dell’ultima (ma l’ultima davvero) generazione del rock’n’roll. Per non parlare del pop, così entusiasticamente gettatosi ad aderire alla profezia da lui fatta, quella di un mondo in cui una macchina produce hit rimescolando perennemente gli stessi 40 brani di successo.
Stamattina, nelle prime due ore di mondo senza Bowie, invece delle frasi, delle strofe a cui ho attribuito la facoltà di indirizzare un po’ la mia vita, mi vengono in mente un sacco di brani relativamente “minori”, piccole villette decentrate invece delle cattedrali come Heroes o Space oddity (che comunque non si possono non amare: grazie alla nonbanalità interna di cui sopra, io stento a credere che alla lunga possano risultare stucchevoli per troppi ascolti, come purtroppo succede per Imagine o Smells like teen spirit). Mi vengono in mente Sons of the silent age o Little wonder, Outside o Some are, Cracked actor o African night flight, This is not America o It’s no game – sì, avete ragione, meglio fermarsi, altrimenti quando ci si ferma? Ho la testa piena di folate di ricordi di luoghi, di persone, di circostanze in cui quest’uomo è riuscito a insinuarsi. Mi chiedo se sentirò allo stesso modo l’impatto dell’addio di altri eroi di bambino, negli anni a venire – che so, Paul McCartney, Mick Jagger, Neil Young, Joni Mitchell, Peter Gabriel, John Lydon: come Bowie, non appartenevano alla mia generazione, ed è per questo che mi viene da pensare se in qualche modo non sarà un po’ come quando se ne è andato mio padre – è ridicolo, inappropriato? Sì, a rigor di logica lo è, però credo che capiate cosa intendo dire, sono quelli che ci hanno cresciuto. Ed è diverso con quelli venuti dopo, i fratelli maggiori, e poi con i coetanei oppure, quando si arriva ad Amy Winehouse, le sorelle minori. Perché quando se ne vanno quelli che ti hanno cresciuto, se ne vanno lasciandoti la sensazione che un po’ di mondo sia finito.
Ma ovviamente non è così. Lo abbiamo imparato con le dipartite degli altri, di Elvis e di Lennon, di Cobain e di Battisti o De André. Anzi, proprio a quel punto inizia la fase del mito.
Ma c’è un piccolo particolare: con David Bowie, e forse solo con lui, il mito era già all’opera quando lui era in vita. Quindi, davvero stamattina riesco solo a domandarmi: e adesso?
So la risposta.
Adesso, non cambia niente.
Buona giornata.
E’ proprio tutto vero. Con Bowie il mito era già all’opera quando lui era in vita. E allora forse è vero che non cambia niente. Solo che sapere che c’era, che prima o poi avrebbe regalato qualcosa di nuovo, mi faceva stare bene. Spero che se usciranno progetti postumi, ristampe, film e documentari, non siano mai banali come le cose che ha pubblicato in vita. Grazie per aver ricordato pezzi come Little Wonder, Outside, piccole perle che a volte ci si dimentica. Ci mancherà, ma di cose per farci compagnia, gustare, riscoprire, ce ne ha lasciate davvero tante. Non ci stuferanno mai. Buona giornata anche a te, caro mio.