AMARGINE

Come se ne esce. Ovvero, De Gregori e noi (e loro)

Leggere articoli che parlano di musica – ci riuscite ancora? Parlano di troppe altre cose che non sono musica. Sembra che tutti vogliano dire altro. Non è casuale. La musica diventa una scusa. No, non è affatto casuale. Naturalmente ha un costo. Il primo sono quei dannati incipit.
“Quando andavo a scuola” “Mio padre teneva parecchio al suo garage” “Nel mio quartiere c’era un tipo” “C’è una scena, nel Signore del male di John Carpenter, in cui” “Non ho mai veramente capito la maionese” “C’è una sola marca di detersivo in cui credo”. Sinceramente, ho la sensazione che la qualità complessiva si stia abbassando forsennatamente. Nel contempo, vedo alcuni (pochi) (e no, non tutti miei amici. Alcuni non so proprio come siano fatti e da dove vengano e quanti anni abbiano. E non mi interessa) che hanno iniziato a scrivere meglio.
Mi sembra una buona idea.

… ma non posso farlo ora, devo scrivere un articolo su quando andavo a scuola e un tipo nel mio quartiere.

(no, non è vero)

Però devo scrivere di un cantautore di una certa età, che era già famoso quando ero piccolo (e quindi lo è da parecchio, sì). E mi dà fastidio, preferisco di scrivere di ciò che c’è in giro.
Pure, forse è un buon aggancio.

Ieri insieme a settantamila persone sono stato al cospetto di Francesco De Gregori e Mimmo Palladino, alla Triennale di Milano. Bella giornata. C’era il sole e De Gregori era come sempre principesco. Sembra un po’ Scalfari, ma principesco. Copio smaccatamente il comunicato stampa, anche perché è preciso e sobrio: dovevano presentare “una xilografia originale di Mimmo Paladino unita ad un vinile 10” con due versioni (acustica ed orchestrale) di una delle più belle canzoni napoletane di tutti i tempi, “Anema e core”, reinterpretata per l’occasione da Francesco De Gregori e da sua moglie Chicca e registrata a Bath nei Real World Studios di Peter Gabriel”.
Forse qualche anno fa l’idea mi avrebbe fatto accapponare le orecchie. Ma adesso la trovo legittima, quasi leggera, forse un po’ leguminosa. La moglie non è salita al proscenio. Alla fine, preferisco la sua voce a controcantare quella di De Gregori, che non quella di Giovanna Marini. Però non è questo il punto. Ora ci arrivo.
Intanto che ero lì e De Gregori diceva alcune cose interessanti (non troppe), e Palladino diceva alcune cose interessanti (non troppe), mi chiedevo quanti dei seicentomila presenti avessero la mia stessa sensazione, di essere nel sogno del Re Rosso di Lewis Carroll.

Non offendetevi se – essendo una élite – sapete benissimo di cosa si tratta, lo riassumo in un attimo per gli altri: in Dietro lo specchio, Alice si trova davanti a un pezzo degli scacchi, il Re dello schieramento brunito, appunto, che sta pisolando; Tweedledum e Tweedledee le dicono che la vita di ogni creatura è contenuta nel sogno del Re; tutti loro esistono finché lui continua a sognare. Se e quando si sveglierà, svaniremo senza tante chiacchiere. Naturalmente può essere una poetica idea di Dio e di come realmente funzioni l’universo e come realmente Nostro Signore gestisca l’intera commedia – ammetterete che si spiegherebbero tante cose.

Ma per quanto io non sia il più fervido dei degregoriani e sia rimasto perplesso ascoltando tanti suoi dischi, come se avvertissi la sottile presunzione che glieli aveva suggeriti
(e certamente rifuggo dall’idea di ascoltarlo dal vivo, l’unica volta che mi è capitato è stato quando presentava un disco ed è stato dylaniosamente noioso)
ci sono certi suoi pezzi nei quali ho abitato. Non sto a contarli, ma almeno sei o sette.

Intendiamoci, ho abitato pure in un sacco di pezzi di altri – non ve li faccio i nomi, perché poi diventa un discorso calcistico. Oppure sì, dovrei farli, perché questo non è un articolo su De Gregori. Ho abitato e abito in pezzi di gente che depreco. Di gente che non so cosa volesse da me. Di gente che ho stroncato, che sbeffeggio, che me l’ha giurata, che inizia a essere parecchio più giovane, di gente che ha azzeccato solo quella, di gente che invece ne ha scritte tante più celebrate ma senza accorgersene ne ha scritta un’altra che a me piace di più e invece lui o lei non saprebbe nemmeno più cantare.
E non la saprebbe più cantare proprio a causa della famosa frase/canzone di De Gregori: Guarda che non sono io.

Ma infatti, non sei tu, sono io. Siamo noi. Che vi abbiamo presi tremendamente sul serio. Che ci siamo fatti spiegare la vita dalle canzoni. Che lo abbiamo fatto per anni, ed è per questo che io do in escandescenze quando qualche collega sentenzioso sentenzia che tutto quello che è nuovo è intrinsecamente, necessariamente bello e utile come il nuovo iPhone, e se non mi ci ritrovo è perché non lo so usare. No, è una spiegazione facile per critici cretini, e se provate a dirmela di persona finisce a pugni, ve lo prometto.
La verità è molto più vicina a questa bizzarra, forse inutile ed elitaria collaborazione tra De Gregori e Palladino. Ovvero, quelle ambizioni (o pretese, chiamatele come volete) di fare anche un pochino di arte, oppure di fare qualcosa di bello (e non FIGO), intanto che venivano lautamente compensati e venerati, e che sono andate dissolvendosi di generazione in generazione.

Il punto è che non è così terribile ammetterlo. Anzi, è così evidente che il successo e la conoscenza del marketing e della costruzione del (…non userò quella parola inglese che inizia per story) del personaggio e i trucchi più efficaci per agganciare i neuroni dei cosiddetti ascoltatori sono diventati una forma d’arte, tanto che riconosco l’onestà di quei recensori che ridono di quei concetti musicali che erano cruciali quando ho iniziato.
De Gregori ieri mi ha messo la torta in tavola quando ha detto: «Io mi ostino ancora a definire la musica “arte”, anche se nel mio mestiere si lavora soprattutto sulla prevedibilità, sul capire cosa vuole il mercato, cosa che agli artisti non dispiace perché rassicura sulle possibilità di successo».

Penso che fosse così anche quando De Gregori era giovane. Vincenzo “Iotammazzerò” Micocci me ne descrisse alcune sfumature non proprio principesche, nel rapporto col successo. Ma poi, le canzoni in cui io ho abitato le ha ben scritte, e lui era lì davanti a me, davanti a noi e non lo sapeva, forse lo presumeva ma in fondo non gli interessava, “Guarda che non sono io”. Sono stato, siamo stati dentro i suoi sogni e dentro quelli dei suoi colleghi. Era parte di un patto implicito. Non facevano la conta dei Rolex e delle Lamborghini, non scrivevano trattati sulla merce che caratterizza la pienezza del vivere, scrivevano per noi. Eventualmente fregandosene di noi. A noi andava bene. E magari pure a noi – e ai media pre-social – fregava poco di sapere chi fosse sua moglie, e dove si erano sposati, e chi erano gli invitati, e chi aveva realizzato il vestito della sposa e dove andavano in viaggio di nozze e cosa facevano ogni giorno.

Il fatto è che sempre meno gente scrive queste canzoni in cui abitare. Lo so io, e lo sapete anche voi, solo che scriverlo sembra triste, buh, vecchiezza e nostalgia e incapacità di capire, bla, bla, blah.
Invece no, va così e basta, e per i 16enni di adesso non è un problema che la musica non sia più abitabile (quelli di loro che hanno quel tipo di sensibilità e di esigenza, poveri, si rifugiano nel preistorico – mica crederete che siano i 60enni a tenere perennemente in classifica Kurtcobain o The dark side of the moon). E non ne soffrono così come per me e per voi non è un problema se non si fanno più film in bianco e nero oppure se non ci sono più i cantastorie per strada oppure che so, se Topolino che vendeva un milione di copie ora ne vende centomila. E tutte ai genitori, in fondo.

Così, forse dire che quella che chiamavamo arte è uscita dall’edificio significa svegliare il Re Rosso. Ma chi lo sa, potrebbe essere la cosa migliore per tutti. Perché è iniziata un altro tipo di partita, e non funziona allo stesso modo. Puoi parlare di calcio e parlare di tennis, ma non è che siccome c’è una palla, le regole sono le stesse. Quindi, raga, il mio problema è che troppi scrivono che davanti alla rete, bisogna buttarla dentro perché è naturale e si è sempre fatto così – ma era un altro sport, la rete non stava lì per quello. E a me va benissimo ragionare sulle sottili differenze tra l’uso degli occhiali D&G in Sfera Ebbasta e l’uso degli occhiali D&G in Emis Killa, mi invitate a nozze. Però se pensate che per i millennial valgano le stesse stradine emozionali ma sia semplicemente cambiata la macchina, se pensate che davvero la roba fatta coi suoni (sempre meno) sia ancora quel tipo di forma di espressione ed esprima quelle stesse cose “perché è sempre stato così”, se pensate che quello che stiamo ancora rubricando come musica sia una evoluzione invece che un mutante di un’altra specie, siete già sott’acqua. Del resto, i ragazzi non sono mica come voi, come me. Posso dirlo, tanto loro mica sono qui a leggere uno che se la mena con la musica e come abbia dato forma a tante cose che non capiva. A dare forma ai chiaroscuri della loro vita, diversissimi dai nostri, non sarà mai la ragazza di Roma la cui faccia ricorda il crollo di una diga – che è un’immagine che li farebbe ghignare sodo – ma un meme, un’emoji del 2011, le prime stories storiche, una sfida ad Amici, un video virale su Whatsapp o quelli che chiamano “esperimenti sociali” su YouTube. “Ricordo Frank Matano che per strada scaricava i suoi gas intestinali in faccia a sconosciuti, che coraggiosa metafora” “Ebbi un’epifania quel giorno che Luis Sal andò a Beirut appositamente per fare dei bei rut, perché è così che mi sentivo quando andavo a scuola e c’era un tipo nel mio quartiere e mio padre teneva parecchio al suo garage”. Forse qualcuno avrà la sua rivelazione con qualcosa di meglio. Ma temo, per motivi di semplice assalto quantitativo da parte del pattume pop, che saranno pochini.

4 Risposte a “Come se ne esce. Ovvero, De Gregori e noi (e loro)”

  1. e intanto bocelli scala le classifiche della perfida albione e di trumplandia ma io la majonese non l’ ho mai veramente capita.
    ( curiosamente il duet con bocello figlio non si intitola ” mio padre ci tiene parecchio al suo garage ” )

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