AMARGINE

aMargine presenta: Riccardo Bertoncelli – discorso di fine anno

Il Magister mi ha gentilmente concesso udienza in un ufficio della casa editrice Giunti. Era un annetto che non lo vedevo – sempre un bel pezzo d’uomo. Anche se le sue parole sono in bold, lui è tutt’altro che grassetto: semplicemente, le mie parole non potrebbero mai essere più cospicue delle parole del Maestro. Per cui, è solo per rispetto che io sarò in magretto e Riccardo Bertoncelli in grassetto. 

Quest’anno ho deciso di saltare la mia filippica di fine anno. Tanto le somme sul 2015 le hanno già tirate tutti, qualcuno già dal 2014. O forse sono in fase di rigetto – c’è troppa scrittura musicale insulsa in giro, e in questo periodo non sento l’urgenza di aggiungere la mia. Magister, illuminami! Cosa si fa in questi casi? A te è capitato?
Non ti piace più scrivere? A me piace ancora un sacco, anche se sono diventato più pigro.
Scrivere mi piace immensamente. Ma scrivere di musica un po’ meno.
Forse dipende dal momento: è più facile quando i tempi ti sostengono, se c’è una varietà di situazioni che ti propongono. Ora come ora la musica più bella è sparita di torno. Ho letto un’intervista a Robert Fripp in cui diceva che la discografia è morta nel 1997. Non ricordo nemmeno più in base a cosa lo diceva, ma penso che il periodo sia individuato bene: arrivato al capolinea anche il cd, cambiati i dirigenti, c’è stato uno stacco brutale col vecchio mondo. Ecco, in quella fase il vecchio mondo muore e inizia un’altra cosa. E tutto sommato anche col rock c’è stato uno stacco. La parola rock continua ad avere fortuna ma le musiche che girano sono altre. Nessuno di noi se n’è accorto all’epoca, perché non è il tipo di cosa di cui ci si accorge da un momento all’altro, non è che te lo dice il giornale. E non perché non sia una cosa importante – il titolo “Hanno inventato Facebook” non è uscito sul giornale, di certe cose ti accorgi quando diventano cose enormi con cui fare i conti. Sta di fatto che i tempi musicali carini sono finiti tanto tempo fa, in quella fase. Dopo forse c’è stato ancora un periodo in cui succedevano cose, e i media facevano proposte interessanti, c’erano libri o eventi… Adesso si sta assottigliando tutto, compreso lo spessore dei media attorno alla musica. Nei libri non siamo ancora arrivati a quella fase, ma nel campo dei periodici siamo alla resistenza gnucca del giapponese in trincea. Tutte queste riviste che perdurano, e tutto sommato ne chiudono pochissime rispetto alle indicazioni del mercato. Qualcuna addirittura apre.
Forse perché danno ancora un senso di legittimazione rispetto al blog.
Stavo leggendo un articolo di Severgnini, che è come un orologio rotto, dice la cosa giusta due volte al giorno. Raccontava una storia banale di una ragazza che fa la blogger e non guadagna una lira, poi trova il suo pigmalione – se ho capito bene gliela dà pure, ma lui crede in lei quindi abbiamo fondamentalmente Cenerentola, solo che adesso è la storia di una intraprendente e fortunata. Siamo messi così.
Ma credo sia una modalità messa in conto da chi ha 25 anni adesso. Orbitare disperatamente attorno a un giro che è a tanto così dall’inconsistenza, in tutti i sensi, ma è meglio che niente. Insomma, è pur sempre un giro, dai.
Tutto per la voglia di annusare questo mondo. Mi vengono in mente i miei allievi del master di comunicazione della Cattolica – la maggioranza vuole lavorare nella promozione che è un campo devastato dove migliaia di persone per 3 ceci e un bottone si contendono l’ultimo degli artisti, è come dire “il mio sogno è finire in un campo profughi in Turchia”. Insomma, pensate più in alto, su. Probabilmente quel mondo lì ha fatto così presa che anche solo sfiorarlo è meraviglioso. “Mio cugino conosceva uno che una volta è stato in ascensore con Jovanotti!”
Lo hype è molto più eccitante della musica in sé.
Perché il nostro è un Paese frivolo, pettegolo, non è un Paese musicale.
Perché lo dici? Quando quelli lassù al massimo sentivano le marce di Elgar, per secoli l’Italia era stata al centro di tutte le musiche possibili.
Ma non quando è iniziata la musica moderna; non a caso il resto del mondo ci ha imbalsamato lì. Noi finiamo con Puccini. Dopo Puccini c’è Modugno, e ancora qualche lampo legato al bel canto. Tutto quello che appartiene al filone moderno non appartiene a noi, gli anni 60 li abbiamo buttati via. Mentre Francia e Germania e Paesi scandinavi li hanno usati.
E se io ti dicessi che forse Albano e Romina, Toto Cutugno, Pupo, questi qua…
Sì, sì, e cosa mi stai dicendo? Che sapevamo fare i detriti della tradizione melodica: è chiaro che Albano con Puccini c’entra, ma fino a un certo punto, è un belcantista piccolo piccolo, uno di una genia di nazionalpopolari il cui legame con la tradizione melodica italiana lo trovi con la lente di ingrandimento.
Guarda che è noto che tu sei sempre stato quinta colonna degli angloamericani.
Oh, va che a me da giovane piaceva Endrigo, e anche Gilbert Becaud.
Non è che quando sono arrivati in forze ci siamo arresi? Gli abbiamo consegnato tutto il nostro immaginario musicale.
Questa è una visione da Club Tenco, dai.
No, però se la Germania è riuscita a piazzare nel mondo i Kraftwerk, noi potevamo fare lo stesso, che so, con Battiato.
Obi-Wan_Kenobi(Rebellion)Ok Battiato, ok De André, non è mica poco, però non vengono riconosciuti all’estero.
Non vengono riconosciuti da quelli là. Ma in Francia, un po’ di interesse lo avevano tirato su. Noi abbiamo sempre riso quando i tedeschi, che pure sono l’altro Paese musicale storico, si interessavano a qualche artista italiano – chiunque fosse, da Branduardi a Ramazzotti alla dance. Storcevamo sempre il naso.
Noi volevamo qualcosa che ricordasse quella musica lì che non era nostra… Ricordo un convegno dell’82 con Franco Fabbri, finì a sciabolate – la tesi del Club Tenco era che se non ci fosse stata l’invasione coloniale del rock e della CocaCola la canzone folk italiana avrebbe conquistato il mondo. Ma la canzone che amavano loro era un’altra cosa, non andava al grande pubblico. E la verità è che noi ragazzi dell’epoca vedevamo nel rock la modernità, c’è stata una generazione che l’ha fatta diventare la musica del Novecento, che voleva chiamare artisti quelli venuti dopo grandi artigiani pop come Bacharach, come Goffin e Carole King. Per questo “rock” è un modo di dire, è diventata la musica che ha caratterizzato il Novecento. Come il jazz nella prima metà.
E adesso?
Adesso il rock canonico delle chitarre è una lingua morta, come l’aramaico, si parla in qualche sperduto villaggio. Oggi si parla la lingua dell’elettronica, computer e sintetizzatori.
Allora perché i ragazzi continuano ad ascoltare Pink Floyd, AC/DC, Led Zeppelin…
Perché nessuno diventerà più così grande! Sono gli ultimi! Io queste cose le dicevo già nei 90, quando parlavo di frantumazione, di tribalizzazione del mercato. Beh, è accaduto. L’esempio che faccio sempre è che se io e te avessimo preso 10mila dischi in due epoche diverse, nel 1991 ne avremmo avuti 8500 in comune, oggi potremmo non averne nemmeno uno. Non si parla più una lingua condivisa.
In compenso le nicchie sono compatte, coese, decise. Nella nicchia ci si legge, ci si confronta, ci si cita e condivide e ci si lika. Quindi magari si è influenti comunque. I blog più letti oggi hanno più visibilità delle riviste.
Io vorrei sapere i contatti di questi blog. Che poi averne uno è così faticoso che non mi convinceranno mai.
Non è così faticoso. Oddio, parlo io che metto un pezzo alla settimana se va bene…
Sai cosa muove i blogger alla fine? Aprire il Fatto Quotidiano o l’Huffington Post e dire ci sono anch’io, c’è il mio blog. Un po’ come dire “Ho visto il mio libro in libreria, sono uno scrittore, sono nel mondo di Saviano”. Per anni ho pensato che nella famosa frase di Warhol, l’accento fosse OGNUNO sarà famoso per 15 minuti. Poi ho pensato: ora ho capito, l’accento va su: ognuno sarà famoso PER 15 MINUTI. Qualche tempo fa qualcuno (ndr: Momus, artista scozzese) ha aggiornato quella frase: “Ognuno in futuro sarà famoso per 15 persone”. Ed è così, perché non lo puoi verificare davvero: i clic, come arrivano? Ci sono quelli che si comprano i like e i tweet, sai.
Va bene, però stavo dicendo qualcos’altro: nel momento in cui a Sanremo entra la giuria dei blogger, X Factor cerca l’appoggio delle tweetstar…
Quella è la moneta da pagare alla modernità.
Però quelli che girano attorno al giro di cui parlavamo prima darebbero una mano per entrare in quel giro lì. Perché alla fine, è una possibilità di essere notati. E per chi ce la fa, già è metà del sogno.
E qual è la remunerazione al di là della soddisfazione personale? Perché io in questo caso, ed è l’unico, la penso come Grillo: a me lavorare gratis fa girare i coglioni. Nemmeno i dischi, te li danno più. E una volta quello di mandarti dischi era un potere. Oggi i soldi sono sempre meno, su internet nessuno guadagna…
Sai, molti dei miei colleghi arrotondano lavorando con artisti o case discografiche, o organizzando eventi… Altri, fanno critica musicale ma di giorno fanno tutt’altro mestiere.
Oh, questo ha senso: allora torniamo al dilettantismo – cioè, io non ne farò certo l’elogio, ma torniamo pure al farmacista del paese che scriveva poesie per diletto, la guardia giurata che è ottimo giardiniere.
Ma perché per il fatto di fare tutt’altro durante la giornata dovrebbero essere meno bravi di me?
Hai ragione, però c’è un fatto: un tempo il professionismo era un filtro. Perché uno scriveva un libro? Perché era bravo. Ancora oggi in università si fanno i concorsi per titoli – però oggi tu pubblichi una cosa per un editore tuo amico che non ti ha pagato, e quello farebbe titolo? Non ha senso. Una volta se non eri bravo non ti chiamavano.
Ora però la casta è sconfitta, decide la gente! Decide il like. Anche per i giornali grossi, eh.
Mi vien da ridere. E poi dove torniamo? Cos’è il giornalismo oggi? Il mondo del pan, figa e balòn. Non si parla d’altro.
Beh, sono motivazioni forti.
Oh, guarda, io sono oltre i Devo, io mi sento pronto per un partito feudale per l’arretramento sociale, per i valvassori e valvassini.
Tu di cosa leggi quando leggi di musica? Oltre all’intervista a Fripp?
Io sono un morsicatore di libri e articoli, sfoglio tantissimo. Leggo Mojo, Record Collector, poi Blow Up dove ogni tanto scrivo, che secondo me ha capito la strada giusta. Ovvero, tanti saluti al marketing, il ragionamento è: “A me non frega un cazzo di quello che la gente vuole, io faccio quello che piace a me, prendo chi mi piace”. I pezzi da 80 righe? No, OTTO PAGINE. E di fatto funziona. E ospita qualsiasi argomento, da Romina Power a Julian Cope. Secondo me il futuro dei giornali è quello, solo che guadagnarci è un’impresa. Io però vengo da quel mondo lì, per cui mi pare di aver chiuso il cerchio rispetto a quando vendevo i miei ciclostilati. Obi-Wan_Kenobi(Rebellion)

Basta giornalismo, parliamo di musica. C’è una cosa che volevo chiederti. Secondo te la gente ascolta in modo diverso oggi? Ha cambiato le orecchie, sono in qualche modo mutate geneticamente? Prima parlavamo dei Pink Floyd. Al di là dell’epicità del passato, loro lavoravano in un certo modo, e io gli devo riconoscere col senno di poi che andavano per la loro strada. Quando è arrivato il punk, i Rolling Stones hanno accorciato i pezzi e si sono adeguati, Roger Waters no: Animals, i pezzi da dieci minuti, poi anche The Wall, il concept album, imperterrito. Trent’anni dopo sono ancora in classifica. Fa ridere, ma questo tipo di musica non l’ha più fatta nessuno, perciò quell’adolescente che vuol stare in cameretta che cerca musica che con la forza dei suoni gli accenda qualcosa…
Non è che quel tipo di musica non l’ha più fatta nessuno, è che o li imiti e allora sei scarico, o fai una versione moderna – e qualcuno la fa, ma in fin dei conti senza cogliere realmente l’aria che soffia in giro. I Pink Floyd come tanti altri inseguivano la stranezza, c’era un’intervista in cui confessavano candidamente che cercavano di imitare musicisti americani che non avevano mai sentito, perché gli avevano detto che in California c’era musica psichedelica che tentava di rappresentare lo stato alterato della mente. E siccome ognuno voleva uscire dalle cose solite, si erano fatta una loro idea di come potesse essere quella musica; quando poi la ascoltarono davvero, si accorsero che era tutt’altra roba.
Però il suono juggernaut dei Pink Floyd, da Dark Side of the Moon in poi è meno sperimentale. Io parlo di quello. Che paradossalmente è meno imitato. Anche Gilmour e Waters, imitandolo, sono risultati tremendi.
Perché con quella fase erano già diventati centristi. Io all’epoca scrissi un pezzo su di loro intitolato Tossicologia delle spezie da cucina.
…Ovviamente.
Perché la loro droga era diventata il curry, l’origano, erano diventati socialdemocratici – a differenza dei primi cinque anni, quando prendevano pulsioni estreme e le facevano rientrare in un discorso normalizzante, non più avanguardia ma rock accettabile.
Ma insisto, il ragazzo di 16 anni oggi nella sua cameretta non può metter su gli Arcade Fire, finisce per forza col metter su i PF: è anche questione di suoni, di capacità di musicare nel modo giusto certe cose.
Questo perché i Pink Floyd si rivolgono a certe emozioni che i complessi nuovi ignorano, bordeggiando un lato oscuro, cerebrale, disperato della vita che una volta era di pochissimi. Perché i Velvet Underground oggi sono imprescindibili e gli Stooges pure, mentre all’epoca non se li filava nessuno? Però nel lungo periodo quel lato lì finisce sempre per prevalere, a rimanere schiacciati sono casomai quelli che non sono anime tormentate, tipo i Buzzcocks e gli XTC che erano brillanti, ma non erano sofferenti, non erano i giovani Werther, che oggi vanno molto. Oggi la condizione giovanile fa diventare un po’ tutti dei giovani Werther perché il mondo è più cattivo. 
Però anche se questo terreno sembra fertile non c’è casa discografica che ci punti, mi pare.
Perché tanti gruppi partono con quell’idea ma nessuno ha il coraggio di andare in profondità. Trent Reznor aveva cercato di toccare quei livelli coi Nine Inch Nails. Poi ha smesso di indagare la materia sonora e far sanguinare la sua musica. Si è limitato a piccole evocazioni, suggestioni, ma niente di più.
E così nessun gruppo è realmente al centro di tutto.
Sempre per la tribalizzazione. Nessuno riesce a essere ecumenico come Elvis e i Beatles e i Rolling Stones. L’ultimo gruppo noto a tutti sono stati probabilmente gli U2. 
Non i Nirvana?
Per me i Nirvana sono stati una grande delusione. Pensavo che Cobain fosse il Jim Morrison a venire. Invece no, alla fine Morrison resta più forte. Anche se dal punto di vista iconografico negli ultimi anni c’è un tentativo di rimonta, vedo che i libri su Cobain vanno tantissimo. Poi mi chiedo se per i teenager, Morrison e Cobain non siano contemporanei. In fondo i Nirvana sono roba di 25 anni fa. Voglio dire, è tanto.
Forse c’è meno epopea. Se ho capito bene come stavano le cose, quando la musica era realmente un’industria, c’erano gruppi commercialissimi come gli Eagles e i Fleetwood Mac o i Supertramp che però avevano una storia, un vissuto: gli Eagles erano una banda di bastardi, dicevano “Siamo belli, sappiamo far le canzoni, non è ammissibile che non sfondiamo”. E tuttavia, a loro modo avevano storie, cose da raccontare, che nelle canzoni filtravano. Ecco, io non trovo una risposta a questo: c’era un’industria, ma non faceva prodotti. Oggi non c’è un’industria, ma tutto ciò che esce è mirato, targettizzato, e lo stesso non attecchisce veramente.
Sai, io non sono sicuro che le multinazionali facciano così pochi soldi. Hanno sempre contratti-trappola in cui ti spellano, e sono riuscite a riciclarsi, con i diritti musicali o le sincronizzazioni.
Ma continuano a lasciare a casa gente.
Guarda, io ho collaborato alla nascita della Warner italiana, allora chiamata WEA e distribuita dalla Ricordi, nel 1975 davo una mano come ufficio stampa esterno. Erano in cinque. Avevano Led Zeppelin, CSNY, poi subito dopo gli Chic e Prince. Sono nati in 5 e sono diventati in 15 e poi in trenta e in cento. Ma si riusciva benissimo a far andare avanti tutto in cinque perché era tutto molto più semplice, non vedevi cose come il tizio che arriva da Londra con il disco nella valigetta atomica…
Daft Punk?
Anche, ma già prima lo avevano fatto i Coldplay. Noi negli anni 90 passavamo dalle case discografiche, tiravamo su tranquillamente le cassettine di roba che non era ancora uscita: quando arrivò in negozio So di Peter Gabriel, che era già un nome di punta, io lo avevo già consumato in macchina. Era tutto molto più semplice. Oggi devi consegnare il cellulare prima di sentire un disco, o firmare impegnative per non fare certe domande.
Non capisco se hai realmente nostalgia o no.
La nostalgia non ha senso, mi piace ricordare e ragionare su quel che ho visto, ma tanto non si può tornare indietro. Certo se ci avessero detto che la parte più buona della torta era la prima fetta, sarei stato più accorto. Un’estate mi dissero “Vuoi passare l’estate con John Cage, si fa un libro?” Io per onestà dissi “Non sono degno” però voglio dire… John Cage, non Morgan. Un’altra volta alla EMI mi dissero “Ci sono dei biglietti per vedere lo show di The Wall a Londra”. Io ci pensai poi dissi “Ma no, dai, è fine luglio, voglio andare in vacanza, chi ha voglia?”
Se dovessi pensare solo a questo secolo? Chi ti ha fatto sbilanciare, dire: in questi quasi quasi ci credo?
Qualcuno c’è stato. Sai, ci sono in giro tante cose per cui ti infiammi e ti sfiammi subito. I Decemberists, i White Stripes, Jim White…
E cosa pensi del pop?
Noto che i nomi in auge sono sempre di più, ma stranamente non riesco a sentirli, non mi arrivano da nessun canale. Non vanno nemmeno molto per radio – posto che rispetto a una volta io la radio non riesco più ad ascoltarla. Fa parte del suicidio dei vecchi mezzi di comunicazione – anche se a dire il vero noto segni di rivolta alle leggi del pop. Non tanto il vinile, figuriamoci. Le vedo, stranamente, nella discografia. Vedo una bella cura del passato. E non sono così convinto come il mio amico Gianni Sibilla che Simon Reynolds ci abbia preso con la retromania, secondo me il passato è un compagno inevitabile, però non c’era questo peso del passato quando abbiamo iniziato noi.
Quando ho iniziato io sì. Però era lontano, favoleggiato, e non ti ci imbattevi di continuo, per cui se ne sapeva poco. A un certo punto compravo i dischi di Bo Diddley e non sapevo se era vivo o morto. Beh, non c’era wikipedia, ma nemmeno radio e tv martellavano con il vintage. Comunque io ero un caso deprecabile, da grande volevo fare il critico musicale, gli altri ragazzi erano contenti di quel che c’era, che non era poco.
Non si conosceva il passato per due motivi: per ignoranza, e perché non circolava. Una volta al festival della letteratura ho parlato con Greil Marcus e si diceva della bellezza o bruttezza di Spotify. Da un lato è una manna dal cielo. Puoi sentire un pezzo subito – ma puoi perdere il tuo tempo e non arrivare da nessuna parte, non hai seguito un percorso, il troppo ti disorienta. E Marcus diceva no, c’è la possibilità di ascoltare tutti gli oscuri bluesman della Lousiana… Non so. Anche perché il fatto stesso che tutto sia sullo stesso piano, anche storico… Uno dei problemi delle nuove generazioni è il prima e il dopo. Qualche giorno fa, anche se io non leggo mai i commenti su internet – già leggendo quelli del calcio mi girano le palle, trovo aberrante che uno possa dire quel che vuole con uno pseudonimo – mi sono imbattuto in un tipo che commentava un mio libro del 1992 dicendo “Va beh, che ci vuole, ha scritto roba che è tutta su internet”.

Secondo te di cosa dovremmo scrivere? Sempre che scrivere si debba?
Obi-Wan_Kenobi(Rebellion)Parto da un dettaglio: io ho smesso di fare le descrizioni dei dischi. Leggo ancora gente che scrive “il tale pezzo inizia con un pianoforte barrelhouse”, ma è assurdo, è come fare gli articoli sportivi il lunedì come li faceva Gianni Brera, quando nessuno aveva visto la partita in tv. Se vuoi leggere una recensione è per voglia di confrontarsi, per un commento, ma il resoconto non ha più senso. I giornali del futuro saranno versioni fatte meglio del Foglio. Una piccola parte di cronaca, molti commenti.
Opinioni, opinioni, opinioni.
Scritte bene.
Chi lo sa. Sai, io non so i miei coetanei, ma personalmente, forse per aver iniziato contemporaneamente su carta e su web, potrei fare da trait d’union tra quello che facevi tu e quelli che fanno i blogger oggi. Però non condivido del tutto questa idea di entrare in scena durante un pezzo. Mi capita di farlo sul mio sito – perché mi pare che la cosa interessi. Ma guardo con un disagio pauroso a quelli che lo fanno sulle testate vere, che siano di carta o di web. Oggi è tutto uno scriversi addosso. Questa cosa un po’ l’hai iniziata tu.
Beh, est modus in rebus.
Infatti, tu avevi misura e poi lo sapevi fare. Eri anche il primo, e del resto avevi le tue piccole arti. Per esempio, per me la tua più grande invenzione è stata parlare in termini gastronomici di musica, l’espediente di descrivere l’esperienza sensoriale chiamando in causa un’altra esperienza sensoriale. Era la soluzione al dilemma del danzare di architettura, io non credo l’abbia mai avuta nessuno all’estero – del resto forse ci si poteva arrivare solo in Italia. Adesso il modo di parlare di musica è parlare di sé, fin nelle minuzie. Non so se hai letto la settimana scorsa un articolo di *****, in cui…
Chi è?
Oh, perbacco. Pensavo lo conoscessi. Beh, scrive su ***** e su *****.
Mi spiace, non lo conosco. Comunque sull’entrare nel pezzo, ovviamente anche Lester Bangs faceva così però io non lo leggevo all’epoca, non ci arrivavano così facilmente le riviste americane. Alcune cose di Bangs sono meravigliose, io lo leggo ai miei ragazzi al master, per esempio il pezzo sulla morte di Elvis – ma lì quando parla della propria vita ha un senso, l’artificio è bello per come lui lo sostiene. Lo stesso strumento, nelle mani del maestro e dello studente produce effetti diversi. In ogni caso se questo tipo di scrittura oggi è dominante è perché alla gente piacciono le storie. Certo, per come si scrive in Italia può diventare una scorciatoia. D’altra parte la forma-blog, come dicevi tu anche prima, lo implica. A me piace il blog di Eddy Cilia, lui ci spende un sacco di tempo. Nel blog sei il castellano di te stesso, sei il muezzin nel tuo minareto, io contro di voi.
Ma no, nessuna guerra, viviamo tutti per i like, abbiamo bisogno di amici e condivisione… A proposito, c’è stato qualche artista che ha voluto essere tuo amico? Eccetto il tuo legame indissolubile con Guccini, naturalmente.
Con Ligabue ho un rapporto trasparente e onesto, l’ho beccato quando non aveva certo bisogno di me. Battiato l’ho conosciuto da ragazzo, avrà avuto 25 anni, ho anche fatto capodanno a casa sua con la sua mamma. Mai avrei pensato che assurgesse a guru, però mi hanno sempre fatto ridere quelli convinti che Battiato ci marcia. Battiato è così, garantisco.
Ok, ora direi che l’enciclica può finire. Se a te va bene, torno tra un anno così ti faccio pontificare tipo le interviste a Scalfari su Repubblica. Ti trovo qui?
Oh, chi lo sa, speriamo.
A cosa stai lavorando?
Entro poco farò uscire una raccolta di cose che ho scritto, un po’ recenti e un po’ vecchie. E tu?
Niente di particolare.
Ah. Bene.

2 Risposte a “aMargine presenta: Riccardo Bertoncelli – discorso di fine anno”

  1. Riflessione a margine: forse il segnale più evidente di quanto è chiuso e referenziale il mondo della cultura in Italia da almeno cinquant’anni a questa parte, è che gli scrittori migliori non vengono dalla letteratura, salvo sparute eccezioni (Arbasino, Busi), ma dal giornalismo di genere. Brera, Clerici, Bertoncelli, beatamente (beotamente) ignorati dalla cultura “alta”, hanno scritto le pagine più belle che ho letto in lingua italiana.

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