AMARGINE

(the Rolling Stone Files) Gué Pequeno. In fondo, un bravo ragazzo

(giugno 2013)

Avendo espresso pareri piuttosto ruvidi sui Club Dogo, era solo questione di tempo prima che a Rolling Stone, dove da sempre sognano di scrivere un commosso articolo sulla mia prematura dipartita, mi dessero la possibilità di sentire in faccia la replica di qualche tesserato del Club. E per di più, di quello col fisico realmente intimidatorio – perché Gué Pequeno, sappiatelo, NON È “pequeno”. Però non l’ho trovato mal disposto, anzi: incuriosito. E come forse noterete dalla lunghezza di questa intervista, la cosa vale per il sottoscritto. In effetti, di cose di cui chiedergli conto ce ne sarebbero così tante, che ancora un po’ e mi scordavo di chiedergli della Minetti.

Credo tu sappia che parecchi lettori di RS non sono entusiasti del rap italiano.
Infatti. E quindi, complimenti per il coraggio di intervistarmi.
Molti, senza nemmeno leggere, scriveranno insulti. Per questo mandano me – così i vaffanculo si sommano a quelli che ricevo io abitualmente e non si disperdono.
Però è una cosa che succede solo con i lettori italiani. L’edizione americana mette normalmente i rapper in prima pagina. Non credono in un mondo diviso banalmente in commerciale e alternativo. È questione di gusti, non di legittimità di una roba. Io per primo se apro un giornale e vedo un articolo su una band di rock, quasi sempre dico “Non me ne frega un cazzo”. Ma non penso che sia un genere peggiore. Invece in Italia anche da parte di quasi tutta la stampa il rap non è mai stato non dico capito, ma nemmeno ascoltato, tranne forse adesso con Fibra. Mentre in Francia c’è Booba che è tamarrissimo e su Liberation lo paragonano a Celine.
Da noi Jovanotti ha avuto la benedizione di Fernanda Pivano, Franco Bolelli, Fabio Fazio.
Ma lui non viene dal movimento hip hop. Ha dato visibilità alle ritmiche, alle sonorità, ma non è considerato dalla scena, e lo sa. Io non sono un purista ma Jovanotti non è considerato un pioniere come Neffa e J-Ax.
Ma tu vorresti andare da Fazio al posto suo?
No, non sto dicendo sono il più bravo, devo andare da Fazio – cazzo me ne frega, non lo guardo. Però io e altri miei colleghi oltre alle tamarrate, lo stile, le fighe, la droga, sappiamo scrivere testi e abbiamo un talento linguistico che non viene mai riconosciuto. Io dormo lo stesso sereno perché guadagno molto bene e ho molte soddisfazioni – l’unica cosa è che se vado sul Corriere della Sera mio padre è contento. Ma a me e al mio pubblico del Corriere della Sera non fotte un cazzo. Come dice Marracash, in Italia per sentirti dire che sei oggettivamente bravo a fare rime devi fare l’impegnato e l’alternativo, mentre se vedono il rapper col Rolex d’oro, no, non è “bravo”. Vaffanculo. È razzismo. Mi ricordo quando hanno iniziato a bannarci dai centri sociali, allora non sei alternativo, sei più razzista e fascista di quello che stai criticando.
A proposito di criticare. Ascoltando il tuo nuovo disco Bravo ragazzo, nel primo, secondo, terzo pezzo, quando ancora mi è toccato sentirti raccontare che quando arrivi tu nel locale, ti fai le nostre tipe a noi non resta che sucare e strisciare, mi sono annoiato un tantino. Quanto è una tassa da pagare, il fare pezzi cafoni? E non cominci a sentirlo come tale?
No, perché l’egotrip, lo swag è una cifra stilistica dell’hip-hop.
Ok, lo so – ma a un certo punto uno si chiede se ne esistano altre.
Mettiamola così, se io ascolto un disco degli Afterhours e sento un pezzo intimista, due pezzi intimisti, tre pezzi intimisti, dico: ma che cazzo stai dicendo?
Non di rado anch’io.
Però nel mio disco hai dieci pezzi che non sono così. C’è una metà del disco che è leggera, con esercizi di stile che analizzati dal punto di vista del contenuto possono risultare minchiate basate su giochi di parole, ma altri pezzi che difendo come testi. Sono testi che sono veri, e non solo freestyle ed egotrip.
Ecco, la cosa che si nota subito è che Bravo ragazzo sembra diviso in due: pezzi tamarri e pezzi romantici.
Abbastanza amari.
Sì, quasi tutti sembrano ripetere la stessa convinzione: nel mondo l’amore è probabilmente impossibile, quindi non posso che sognare il brivido. E quindi, metà pezzi cafoni, metà più personali – e a fare da spartiacque Come mai, con Ensi: un pezzo sull’Italia di oggi.
Io sono così. Io sono uno che dopo cinque feste a ubriacarmi con le tipe, mi prendo male. E quel momento preso male, lo tiro fuori. Il disco mi è venuto così.
C’è un’anima Dogo, da branco, e una più insoddisfatta? Cosa ti fa dire questa rima è per il mio disco e questa è per i Dogo? 
Tecnicamente non c’è davvero differenza. Perché anche nei Dogo, io sono io, okay? La differenza è che i pezzi coi Dogo nascono per essere un manifesto di tre persone. Poi c’è il fatto che il gruppo oggi ha una popolarità quasi da giostre. Quindi da solo posso fare cose che nel gruppo non farei. Pezzi più lenti, che se li propongo a Jake mi manda a fare in culo. Stare in gruppo è divertentissimo, ma fare roba da solo, lo dico ovviamente senza sminuire il gruppo, mi dà molta più soddisfazione. Ovviamente per fare il disco da solo mi hanno aiutato anche loro così come altre persone, però il disco solista mi dà più libertà, mi dà più gusto.
Il disco è lungo. 19 pezzi, e tutti pezzi veri, non brevi interludi o intro. Nell’edizione deluxe salgono a 25. Potevi farci due dischi. E non è che tu abbia avuto tanto tempo per accumularli, coi Dogo sei uscito l’anno scorso, come solista nel 2011.
Sì, produco parecchio. Ma non solo io. Il discorso è che la produzione rap negli anni 2000 è più rapida che negli altri generi, anche se il pop si sta adattando. Dieci anni fa i big facevano un disco ogni 4 anni. Oggi non puoi più, c’è internet, c’è YouTube, il mercato fagocita, ha fame, non puoi stare fermo. Ora questa cosa l’hanno capita anche i big italiani e pubblicano cose con maggiore frequenza. Per il rap questo è amplificato perché è una musica più veloce in tutti i sensi. All’estero c’è gente che fa pezzi quotidianamente, è una ruota. È un business milionario, c’è gente che ormai sta vivendo dentro uno studio. Invece noi ancora adesso non è dato per scontato che noi passiamo per radio. Anche se i dischi rap vendono e i ragazzi vogliono quello, ci sono radio i cui direttori artistici preferiscono mettere dieci volte Ligabue che una volta un pezzo nostro.
Evidentemente le radio non si rivolgono più a chi ha meno di 25 anni.
No. Quando io ero ragazzino c’era la musica zarra, la dance commerciale…
The rhythm of the night, What is love. Quella, per radio passava eccome.
Oggi invece la musica zarra, che piace a livello popolare è il rap, eppure per radio non passa.
È solo questione di ammorbidirlo, vedrai che passa. Comunque del tuo album posso dire una cosa: è un disco da manuale dell’hip-hop. Ma lo dico nel bene e nel male. Hai usato produttori italiani, francesi, americani. C’è l’allstar game dell’hip hop italiano: Fibra, Fedez, Marracash, Emis Killa, Tormento, Ensi… Ma una cosa che mi pare di noare è che non dici tanto di te. Quanto del tuo personaggio. Non Cosimo, ma Gué. 
Guarda, è vero, però la risposta è semplice, l’hai data tu: è un disco rap da manuale. La sede e il luogo in cui dirò, se mai dirò qualcosa in più su Cosimo Fini, non è ancora questa.
Perché? 
Perché ora faccio dischi di Gué. E Gué è un rapper, non un cantautore. Che poi, non è per fare polemica ma non è che il fatto che io abbia un personaggio e un nome da rapper, fa sì che parli di me stesso meno di altri. Quando sento i pezzi di Tiziano Ferro, cosa viene fuori di lui? Proprio niente, anzi. O dai pezzi di Vasco – dice togliti i jeans, sembra un rincoglionito. Io al confronto sembro Umberto Eco.
Vasco ha già dato, io da anni non pretendo più che scriva inni. E quanto a Tiziano Ferro, il genere può non piacere, ma da alcuni suoi testi viene fuori proprio la persona incasinata che era.
Ho detto un nome come esempio di pop italiano. Potevo dirti Emma. Come tanti altri cantanti X…
Ma tu ti consideri davvero sullo stesso piano di Emma?
Guarda, apprezzo molto le tue critiche, non voglio fare l’ignorante a tutti i costi, è vero che non vengono fuori tutte le domande che mi faccio. Ma sai perché i ragazzi sono innamorati di questa musica? Da me e da altri artisti rap viene fuori uno stile di vita, un modo di pensare, un humour nero che non c’è in tanta musica pop da cui non viene fuori un cazzo. “Dammi un bicchiere di sole” – ma che cazzo stai dicendo? (brano di Malika Ayane, ndr) Sono sempre tutti innamorati? Io dico a questo e quello “Devi sucare”, ma vengono fuori cose sicuramente riferite alla realtà, ci sono marchi di moda, ma sono fotografie dell’Italia… Scusa ora mi sono infervorato. 
Guarda, sono qui per questo.
È che io mi sento davvero di difendere il genere a spada tratta: è molto più vero, attinente alla realtà: dal rap vengono fuori molte più cose vere che nella musica pop e rock.
Per molti versi ti do ragione. Ma le cose banali non mancano. Ti faccio un esempio: quando dici “Come divinità egizie ho la testa da bestia e un corpo da uomo”, oppure “Ti mostro il peccato quello originale, gli altri sono solo una copia”, hai la mia attenzione. Quando dici “Sono un bastardo ma ho diritto di vivere anch’io, me ne frego del vostro giudizio” – quello lo stanno rappando decine di migliaia di altri, non c’è nulla che non sia intercambiabile con altri. È l’equivalente hip-hop della rima cuore-amore.
Però hai lasciato fuori il wordplay: me ne frego del vostro giudizio: sono ateo, grazie a Dio.
E non è molto originale nemmeno questa, scusa se te lo dico.
Lo so, ma guarda che il flow è pieno di cose che non sono mie, il rap fagocita, tira dentro citazioni dalla letteratura a Jerry Calà. È così che funziona, capisci? Non mi viene da fare il rapper letterario, non sono Manuel Agnelli, chi sono io lo sanno tutti.
Credo che un Manuel Agnelli del rap sarebbe insostenibile. Ma certe frasi paiono lì solo a uso e consumo dei ragazzini.
Se alcune cose ti sono piaciute vuol dire che ho fatto il mio dovere. Ma se mi dicessi che TUTTO ti è piaciuto direi: strano.
Questo è interessante.
Mi ascolta gente diversissima, tamarri e studenti, calciatori famosi e disoccupati: colpire tante persone diverse è segno che hai fatto qualcosa di buono. Non posso fare una cosa solo per le ragazzine o far qualcosa per far bagnare il critico che dice “Aaah, sìii, che cosa ha citato… Ah, sì, Saviano…” Che cazzo me ne frega? Quando leggo le recensioni, mi viene il nervoso, sono tutte minchiate. Non voglio far di tutta l’erba un fascio, ma… Poi anche quello di dichiararsi il numero uno, di sfidare gli altri: nel rap c’è sempre una specie di nemico immaginario, fatto di tutti quelli che non ti hanno mai rispettato. Nel rock e nel pop non c’è. Il rap parte dal fatto che sei stiloso. Ma poi neanche tutto, c’è Dargen che fa tutt’altra roba, c’è rap per ogni gusto. Io però sono cresciuto negli anni 90 con Jay-Z e bisognava essere in competizione per chi era più stiloso.
Tu cosa senti di aver scritto di una spanna sopra rispetto agli altri rapper? Un pezzo, una rima?
È difficile rispondere.
Cosa faresti – toccati se vuoi – cosa faresti scrivere sulla tua lapide?
Non so, aspetterei un attimo. Io ho ancora molto da fare. È relativo. La cosa bella, la cosa di maggiore successo… Non so.
Se non mi rispondi, penserò davvero che la cosa di cui sei più fiero è aver fatto i soldi.
Ma non li ho fatti, i soldi.
Eh??? Lo ripeti per metà disco.
Ho fatto soldi a livello di strada, non a livello di Berlusconi. Sono i soldi del Monopoli. Di certo ho fatto tante cose brutte. Però anche se rischia di sembrare una cosa veramente retorica, una cosa bella, è con una cosa così frivola, aver reso felici delle persone. Non sto parlando di cose pubbliche, andare all’ospedale a trovare il tipo – ma proprio in generale, c’è gente che è stata meglio sentendo un nostro pezzo. Il fatto che mi ascolti la 16enne bagnata, lo scrittore, il pusher, il bocconiano, il pugile, l’imprenditore, vuol dire che già faccio qualcosa di trasversale. Il mio problema è che uno stronzo dica questo non è bravo a incastrare le rime. Punto. Però molta gente è davvero felice quando ci sente. E questo è bello da pensare… Fa molto Mulino Bianco, vero? 
No, è una buona risposta. Senti, la parola più ripetuta nel disco è “tatuaggi”. Segue, “Luis Vuitton”. La frase più ripetuta è “Quando entro nel locale”.
Hahaha!
Hai una risposta da dare?
I tatuaggi sono molto citati anche perché avevo quest’idea che secondo me era bella, una canzone in cui cerco di interpretare la vita di una ragazza guardandole i tatuaggi. Vuitton è come gli altri brand di moda, stupidi materialismi e status-symbol ma anche fotografia di quel che succede nel mio mondo. Se fossi un filosofo vedrei altro, ma ho fatto un anno vivendo in discoteca, per lavoro, quindi è uno stereotipo ma è anche autobiografico.
Dicevi che dopo un po’ le feste ti rompono le palle. Sono diventate pallose con la crisi, o sei tu che stai maturando, come si suol dire?
A me non interessa la mondanità. Ma alle feste sono invitato, magari per lavorare. E spesso finisce a scatafascio. Io però quel mondo lì cerco di sfruttarlo come Robin Hood, di scopare le donne che ci ruotano attorno ma non mi piace far parte di quella roba. Non mi interessa essere il vip. Una volta che ho fatto successo e mi conoscono anche le pietre, vado sempre negli stessi posti, anche di basso livello, mi piacciono gli strip club.
Ad esempio?
Pepenero, Extasià…
Ah, rispetto. Io invece sono orfano del mitico Lili la Tigresse.
Spesso frequento donne che ci lavorano. Vado lì e quelli che mi porto in giro sono veramente miei amici. Sono i posti da cui riparto. Quando mi metto a frequentare una tipa e sta per diventare una storia, dopo un po’ che me ne sto bravo sento il richiamo della foresta: anche se sono con la donna più bella del mondo e nel posto più tranquillo del mondo, voglio andare al bar dove ci sono le slot e i miei amici che spacciano. Però nello stesso tempo vedo molti film, leggo anche.
Uh, ora che mi viene in mente. Hai avuto una storia con Nicole Minetti. 
È successo. Capisco che è una cosa che fa scalpore ma alla fin della fiera non ha a che fare con la politica.
Non avevo dubbi.
Chi se ne frega, se io nella mia vita ho detto cose contro il PdL chi se ne fotte, quella è una bona come un’altra, alla fine non fa neanche politica.
E anche qui non avevo dubbi. Ma non hai passato metà del tempo a dire a te stesso: ma veramente, sono con la Minetti?
No, perché mi dicevo: eh, però!
Da ottuso maschio eterosessuale posso capire – ma nei momenti di lucidità?
No, beh, ti dirò, sai cosa? È tutto un discorso, cosa va bene cosa non va bene. Ammetto che è una cosa frivola. Ma se penso a che gente ho frequentato nella mia vita, non è la persona peggiore.
A proposito di frequentazioni. Col Club avete fama da duri, e la coltivate. Ma questo non vi ha mai portato a situazioni un po’ oltre le vostre intenzioni? Gente che vi tirava dentro in movimenti davvero pesanti?
C’è una categoria di persone in tutto il mondo che soffre la popolarità, è vip addicted. A tutti i livelli. Anche i balordi sono vip addicted. Ma noi sappiamo il fatto nostro. Certo rimanere legato a certi giri ti porta a contatto con certi personaggi. Io credo che non si finisca mai di imparare… Incontro sempre persone assurde. Anche di recente mi è capitato di dirmi “Ma in che cazzo di situazione mi sono infilato?”
Tipo?
Ero in giro con figli di…
Figli di.
Di…
Dimmi tu. Di criminali grossi?
Mmh. Con tutta la deprecabilità, una cosa c’è da dire. Che comunque io non perdo il focus. Sono proprio uno che lavora onestamente. Mi sveglio tutti i giorni, scrivo dischi, sono consulente artistico di una casa discografica, faccio sport, produco una linea di vestiti, vedi la maglietta che ho su, questo mash-up tra un Van Gogh e una Lamborghini?
Non è male, lo riconosco.
È la linea che curo io. Sono uno che fa le robe, al di là delle cazzate. Non ci facciamo incantare dal trip gangsta perché la nostra fortuna è che noi prima di firmare per una casa discografica eravamo già in mezzo a certi giri. Pur venendo da buone famiglie.
Mi colpisce che tu lo dica. Finora era stato il grande tabù dei Dogo. Qualcuno ve lo rinfacciava, e voi rispondevate di esser cresciuti per strada. Mi raccontano di un giornalista inseguito da Jake che si è dovuto rifugiare in una toilette.
Perché non l’ho beccato io! Il mio sogno è ribeccarlo. È facile perdere la testa ma forse noi sentendoci dire queste cose da sempre, quando è venuta la popolarità sapevamo che sarebbe finita così. Io sono di buona famiglia, è vero – ma non di ricca famiglia. Mio padre, Marco Fini, è giornalista di inchiesta, ha fatto un libro con Valpreda. Io adoro mio padre, ci sono delle… Delle cose. Mio padre è molto anziano, non vive con me, ma è un uomo particolare, non si è mai imborghesito, mi inorgoglisce il fatto di poterlo aiutare ora che è anziano e ha parecchi problemi. Lui è una persona che ha sempre cercato di farmi capire una serie di cose che io non ho mai capito – perché sono una testa di cazzo.
Ad esempio?
L’importanza di alcune cose rispetto ad altre. Prima cosa che mi viene in mente, il fatto che io penso sempre ai soldi e per lui è più importante la cultura. Anche ora, certe cose che faccio gli piacciono, su altre ha da ridire. Però quando vado su una rete nazionale si commuove, nonostante tutto quello che la gente gli dice su suo figlio lui è contento, e non è retorica. Fare qualcosa che lo rende orgoglioso, poter aiutare i miei, questo è quello che conta, no?

4 Risposte a “(the Rolling Stone Files) Gué Pequeno. In fondo, un bravo ragazzo”

  1. Qual’è il livello di artefazione giusto, per Pequeno?
    Bravo lui perché lo stereotipo che si è costruito è più ricco di dettagli di quelli di Vasco e Malika?
    Bah, la gara fra cartonati…

    Lili la Tigresse chi era Mad?

  2. Ho letto con piacere. Bel linguaggio, intervista agile che va in profondità senza perdere il ritmo. Ho 50 anni e credo conti dirlo non in assoluto ma per capire meglio la mia valutazione. Paolo Madeddu sei bravo. Spero tu sia giornalista perché scrivi davvero bene

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