AMARGINE

Keith Emerson: “Imbarazzo? E per cosa?” – (intervista un po’ inedita)

(metà di questa intervista è stata pubblicata da Rolling Stone Italy nel 2008)

(il che significa che metà è quasi introvabile, l’altra metà è inedita)

(e comunque, valutate voi: certo tutto mi sarei aspettato tranne che un colpo in testa.

Ma chissà, forse voleva incontrare ‘sta famosa Mater Tenebrarum)

È tornato dopo diversi anni con un album senza titolo, se non Keith Emerson Band (feat. Marc Bonilla). E nonostante i gravi problemi a una mano, è tornato a quel sound che è solo suo: nessun altro ha quel tipo di tocco. E nessun altro ha con le tastiere un rapporto come il suo. Amore e coltellate – letteralmente
Salve Keith. È un grande piacere conoscerti.
“Ehi, italiàano. Come va? Che catzzo succedi?” (in italiano) (più o meno)
Tutto bene, grazie. Chi ti ha insegnato questo forbito frasario? Dario Argento o Jovanotti?
Ahahahaha!!! Come sta Dario, che sta facendo? È un po’ che non lo sento.
Fa quello che sa fare, direi – un po’ come te: come mai questo ritorno al suono che ti ha fatto conoscere?
A convincermi è stato Steve Porcaro, dei Toto. Insistendo che questa strumentazione così vecchio stile, il vecchio Hammond ha un’energia primitiva che le tastiere più recenti non hanno. E con la duttilità che consente di passare dal prog al blues.
Con te la tastiera esaltava le potenzialità del virtuoso. Quando hai visto diffondersi a macchia d’olio i sintetizzatori, cosa hai pensato? 
Più che con gli Who – sai, Baba O’Riley – notai che qualcosa stava cambiando con i tedeschi, i “cosmici”. Pensai che la ricerca di accordi meditativi portava il gusto del pubblico in direzione opposta. Erano due strade diverse, quasi incompatibili. Sembrerà strano, ma il mio approccio era più simile a quello vitale del punk – che pure contestava Emerson Lake & Palmer – che non ai synth dei Tangerine Dream o dei successivi, tipo Depeche Mode. Tra l’altro John Lydon e io ci conosciamo, siamo vicini di casa. Ogni tanto pranziamo assieme.
Questo è un po’ inaspettato. Ma il crescente successo del sound “cosmico” non ti ha mai influenzato?
E come poteva? Mi ero formato sulla classica e sul jazz, con temi, melodie, assoli in primo piano. Forse ne sono stati influenzati più i Pink Floyd, penso soprattutto a quel disco con quei lunghi arpeggi di Rick Wright…
Parli di Shine on you crazy diamond, su Wish you were here?
Sì, mi pare sia quello. Noi eravamo più interessati allo sviluppo di un tema musicale, che non a un clima, un sottofondo.
Emerson, Lake & Palmer avevano un successo immenso, che oggi non viene riconosciuto, se non per deplorare “gli eccessi degli anni 70”. Da cosa pensi che dipenda? 
Lucky man, dal nostro primo disco, è ancora più popolare di tante nostre cose che abbiamo fatto dopo e che comunque sono andate al n.1. Ma questo è dovuto anche al fatto che col tempo ci siamo concentrati sempre meno sulle “canzoni”. E alla fine, sono loro che ti fanno ricordare dalle radio e dal pubblico. Peraltro, noi eravamo ostici da imitare perché facevamo cose troppo difficili. Non potevano proliferare cover-band di E.L.P. Non posso immaginare che oggi dei ragazzi mettano su una garage band in grado di riproporre i Quadri da un’esposizione di Mussorgsky, e per soli tre strumenti. Insomma, era arduo che facessimo scuola.
Qualche anno fa hai pubblicato la tua autobiografia. L’hai intitolata Pictures of an exhibitionist.
Sì, il titolo mi faceva troppo ridere per non usarlo. E poi, è quello che hanno sempre detto di me. E in parte è vero. Sono quello che suonava il piano a testa in giù sospeso per aria, quello che tirava coltellate al moog, che mimava una scopata con l’organo.
Non hai mai provato imbarazzo?
Io mi divertivo, al pubblico piaceva. Non mi sono mai preso troppo sul serio.
Eppure, citavate musica “seria”, attingevate dai classici.
Mozart faceva musica straordinaria senza essere serio. Pensi che saremmo stati più rispettati dai critici se ci fossimo vestiti di scuro e avessimo suonato con gli occhi bassi tutto il tempo? Sai, potrebbe anche essere. Ma non eravamo lì per i critici, eravamo lì per la gente che pagava il biglietto.
Ma tornando all’autobiografia, molti ritengono che tu stesso nel racconto abbia messo in secondo piano la parte musicale della tua vita, privilegiando le follie da rockstar, le scorribande con John Bonham e Ringo Starr, la cocaina, le imprese sessuali, il lusso sfrenato. È come se non ci avessi nemmeno provato, a spacciarti per artista serio. 
Hahahaha! È una delle cose più belle che mi abbiano detto. No, non ci ho mai provato, è vero. Ma ho amato la musica, e ho buoni motivi per pensare che milioni di persone abbiano apprezzato quello che facevo. Se poi qualcuno grazie a noi ha iniziato ad ascoltare musica classica, o magari Scott Joplin, o comunque ha offerto alle sue orecchie soluzioni musicali diverse da quelle che si sentivano a Top of the Pops, io credo sia un merito che ci va riconosciuto, così come ascoltando i Led Zeppelin la gente scopriva il blues. Mentre ascoltando il rock di oggi, sostanzialmente, si scopre altro rock. E ascoltando il pop di oggi, sai cosa si scopre? Niente.