AMARGINE

Il problema con Battisti

Presumo – forse presuntuosamente – che con voi qui non ci sia bisogno di introdurre Battisti. Che possa prendermi il privilegio di saltare un po’ di capitoli. Di bypassare l’immaginario di falò in spiaggia, dei compañeros che lo sentono di nascosto, del duetto con Mina, di Battisti che sparisce, Battisti con Panella, Battisti patrimonio nazionale. Battisti è stato già discusso, dipinto, evocato, ricostruito, sognato; forse lo sarà sempre, perché non c’è modo di prendergli le misure, di elaborarlo compiutamente. Di vestirlo coi riduttivi panni dell’eroe menestrello come De André, dell’istrione nazionale come Celentano, del ribellesenzaunacausa come Vasco. Battisti è terribilmente elusivo: artisticamente e, nella seconda metà della sua vita, personalmente. Ma d’altra parte, in Battisti la posta in gioco è molto più alta che nei suoi contemporanei. Battisti arriva, monta la musica italiana, poi si guarda attorno, la smonta e se ne va. In lui il personaggio è quasi irrilevante (e in Italia la cosa è rarissima) mentre la musica pop è istanza cruciale, e la sua qualità e preminenza non sono negoziabili.
Per questo Battisti è uno smacco, una ferita. Forse uno dei maggiori motivi per i nostri complessi di inferiorità musicali.
 
…Ma andiamo con ordine.
 
Una settimana fa a Milano è stato presentato il cofanetto Masters, con i brani ripuliti per quanto possibile dai nastri originali, rimasterizzati a 192khz. C’erano Geoff Westley, Franz Di Cioccio, Alberto Radius, Gaetano Ria.
A cercare di raccontare il suono di Battisti.
Perché di questo si tratta, quando Battisti l’analogico, Battisti che incide in presa diretta, che lascia a se stesso e ai musicisti ampio margine di improvvisazione e di errore (“Ho stonato ma lascialo, fa sound”), diventa Battisti digitalizzato.
Non me la sento – per frastagliata pigrizia – di aprire una finestrina sulle finalità di questa operazione della Sony: mi interessa sentire Battisti “pulito”? Non particolarmente. È, come si suol dire, GIUSTO che Battisti sia messo in condizione di arrivare alle giovani generazioni in condizioni di parità di fruizione rispetto al resto del mondo sonante? Che un giorno arrivi sulle piattaforme di streaming con il resto della musica – o meglio della neomusica, se posso Orwellare?
Ci sono ottimi motivi per rispondere sì, e altrettanti per dire no o meglio ancora, chisenesbatte. Perché per quanto mi riguarda – ma è un punto di vista personale che non caldeggerei qualora diventassi Ministro per la Tutela del Dna Italiano – Battisti dovrebbe arrivare a chiunque nel modo più casuale e indeterminato possibile. Ad alcuni ragazzi arriverà per lascito familiare e forse per insistenza dei genitori (la mia generazione è fastidiosamente pressante nel formare il gusto musicale dei figli, chissà perché). Ma secondo me sarebbe meglio che l’incontro avvenisse di soppiatto, per pura combinazione astrale o predisposizione o destino. E se a qualcuno non arriva, possiamo considerarla fatalità (“Questione di cellule”, magari). Perché Battisti, mi sento di dire, è ovunque, è tipo un elemento della nostra sintassi, Battisti è il paesaggio, quella cosa che è così da Vigata a Séstriere e anche rimanendo sullo sfondo ti fa sentire in Italia, finché a un certo punto hai fatto un centinaio di metri oltre un confine e il tuo istinto ancora più dei cartelli ti dice che sei in Francia o in Slovenia.
Probabilmente lo penso perché a me è arrivato senza che lo cercassi: lo aveva lasciato in giro una generazione precedente – ne avevo respirato qualche soffio in casa o dalla radio o tv ma quando sono stato in età da comprare degli album (nel mio caso, 14 anni) lui aveva già chiuso con Mogol, era già un po’ il Battistinonesisti di un brano rap che è ovviamente sparito dopo la sua morte.
E aveva già cambiato le regole del proprio suono. Giacché quello iniziale, che Di Cioccio ha raccontato un’altra volta come si racconta una favola (e che trovate diffusamente nell’affascinante libro Sulle corde di Lucio, scritto con Riccardo Bertoncelli) è un suono che viene forgiato in un vulcano, che convoglia i fulmini in uno studio di registrazione milanese per Emozioni o Dio mio no così come li avrebbe convogliati il dr. Frankenstein – e non a caso i suoi musicisti dopo ogni sessione sembrano scoprire, sbalorditi: “SI. PUO’. FARE”.
Il suono della fase finale è invece la negazione di questo approccio, una ricerca in direzione opposta, l’ipotesi di una pietra filosofale che trasformi in emozioni (con la minuscola) suoni sintetizzati e programmati. Nella fase intermedia, ha svelato il tecnico del suono Gaetano Ria, i suoi riferimenti erano cambiati: dalla black music in svariate varianti (da Otis Redding a Jimi Hendrix. Non è mai stato molto beatlesiano, Battisti) a nomi più europei e sperimentali. “A un certo punto impazzì per i Tangerine Dream, poi iniziò a studiare Peter Gabriel, voleva cercare di capire come lavorava”.
Ma sempre in mezzo,
(e qui finalmente arrivo allo smacco)
c’era stato il fallimento del disco in inglese inciso a Los Angeles.
 
Battisti ha avuto una certa notorietà in Francia, Germania, Spagna. Ma nella nostra idea del pop (e non solo la nostra, a onor del vero) questo non può bastare. Che il migliore dei nostri sia stato rimbalzato nella terra degli schizzinosi e in quella dei bovari è generalmente considerato una conferma della nostra marginalità. E credo che anche voi abbiate osservato come questa presunta inferiorità sia vissuta e propugnata quasi con gaudio dalle nostre belle élite del gusto.
Di Cioccio avanza due spiegazioni per quell’esperienza sommamente deludente. «In parte, la tempistica: era in corso la rivoluzione punk e c’erano i germi della new wave, e lui si presentava con un suono disco raffinato quanto si vuole, ma fuori contesto. Ma soprattutto, una traduzione disastrosa dei testi. Noi come PFM avevamo avuto Pete Sinfield, che sapeva trovare le parole giuste per portare agli americani e inglesi la nostra musica. Lui invece si ritrovò con cose tipo Sì viaggiare che era diventata Keep on cruisin’, letteralmente ma goffamente, perché Cruisin’, come insegna anche il famoso film ambientato nei locali gay, in gergo significava rimorchiare».
Oltre tutto il testo originale italiano era qualcosa che in un certo senso era già stato tradotto – in emozione, per usare la parola da cui Battisti era ossessionato (vedi anche il famoso Speciale per voi di Arbore in cui sbotta davanti agli hipster dell’epoca). Stando a Radius, «Come tanti compositori italiani Lucio componeva cantando in finto inglese. Poi chiedeva a Mogol di usare parole italiane che suonassero allo stesso modo». Ma Mogol, che certamente in tantissimi testi era in grazia di Dio (forse persino immeritata) potrebbe aver sopravvalutato l’universalità delle sue parole a danno di quella dei suoni del partner (…come dire: “è uno sbaglio, è petrolio”). Perché fu lui a cambiare traduttore all’ultimo momento, bocciando i testi di Marva Jan Marrow, cantautrice compagna di Patrick Djivas della Pfm, per passare il compito a Peter Powell. Chissà se la cosa è stata uno dei motivi alla base della Grande Separazione. Culmine, ha notato Ria, di una deriva reciproca evidente all’entourage anche se tenuta sotto silenzio (“…Non possiamo farne un dramma”).
Dopo il fiasco USA di Images Battisti provò con l’Inghilterra affidandosi a Geoff Westley, che produsse i suoi album più maturi. Ma i due mondi faticavano a comunicare.
(è abbastanza noto che David Bowie era un ammiratore di Battisti – ma anche questo, non è del tutto un buon segno: Bowie non aveva esattamente i gusti dell’inglese medio)
«L’attitudine dei musicisti inglesi davanti a un italiano non è bella, è sempre di disprezzo», ha spiegato Westley. «Al contrario lui nei confronti dell’ambiente musicale di Londra era molto curioso e rispettoso. Anche troppo, forse. Io neppure sapevo che suonasse, lasciava fare ai musicisti di studio, parlava sempre di emozioni più che di suoni – finché una sera, dopo cena, ha preso la chitarra e ha dato una specie di concerto per i miei ospiti e ho scoperto che era bravissimo. In due mesi che ci conoscevamo non mi ha mai detto “Sai, io nel mio Paese sono importante”: l’ho scoperto solo grazie a un ragazzo di origine italiana che mi disse “Ma tu lo sai chi è lui, in Italia?”». 
 
Appunto. Battisti rimane una nostra questione privata. Un genius loci, un codice (genetico?). Una combinazione di suoni e di concetti che apre solo noi, che fa vibrare l’Amore nostro di provincia. Ma se devo essere sincero, dopo anni furibondi di latinerie e di pop svedese abbastanza insulso per funzionare a tutte le latitudini, questa cosa inizia a sembrarmi sempre meno un limite, e sempre più un punto a favore.

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