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Il potere del suono. Intervista a Ennio Morricone

Che opinione ha del panorama musicale del 2016?
Mi pare che si tenti di fare musica soprattutto orecchiabile, ma troppo spesso con superficialità. C’è molto dilettantismo ma non lo dico in modo snobistico, perché esiste un dilettantismo creativo importantissimo. Invece quello che vedo, anzi che sento, è un dilettantismo povero, che si accontenta dell’ovvio. Si punta troppo sull’orecchiabile. Spesso si tenta di mascherarlo con interpretazioni che riscattino i testi, o la ripetitività sillabica di certe melodie. Io penso che ogni suono debba essere una novità all’orecchio dell’ascoltatore. Nel contempo trovo uno spreco associare parole bellissime a una melodia frettolosa, puntando sull’oratoria, su un recitativo dissimulato.

E dell’attuale predominio della tecnologia nella musica cosa pensa?
Guardi che la tecnologia è da sempre parte della musica, ogni epoca ha avuto strumenti che riflettevano il grado di avanzamento tecnologico di quella fase. Ma nel caso di computer e sintetizzatori noto una inclinazione a farsi dominare dai computer invece che a dominarli. Credo si senta nella composizione. Un orecchio appena educato alla musica si accorge subito se il compositore è dominato o domina lo strumento elettronico. Intendiamoci, ci sono musicisti e compositori di musica pop che fanno cose notevoli, che danno conferma di musicalità. Altri danno conferma del niente, del ripetuto, dell’ovvio. Non mi chieda di fare nomi… Anche perché io vorrei che la gente li individuasse per conto proprio, basterebbe prestare un po’ di attenzione alla musica. In ogni caso, raramente in questo periodo sento un uomo E una macchina. Più spesso è l’uomo che si adegua, passivo, alla macchina.

Ma la macchina è stata progettata dall’uomo.
Sì, ma siamo a un livello in cui la macchina viene semplicemente concepita come un recipiente di suoni sempre più ampio. Paradossalmente, la ricerca, lo studio dello strumento diventa più difficile e pochi vi si dedicano davvero. Inoltre, trovo spiacevole che tanti strumenti cerchino la simulazione perfetta di quelli esistenti. La simulazione di orchestra, archi, fiati, mi pare umili la musica e il musicista stesso.

Qual è il suo suono preferito?
Uno è molto personale, ed è l’organo a canne, ce n’era uno grandioso che sentivo quando andavo in chiesa da bambino. L’altro è la voce umana. Può fare delle cose incrediIIIibili.
(ndr: lo dice come quella voce che al termine di un famoso film, per il quale lui ha composto la famosa colonna sonora, modulava: “AaAaAAAh!”)

La sua prima colonna sonora risale al 1961. Come era vista quella modalità professionale, all’epoca?
Penso che a differenza degli anni precedenti, anche da noi si cominciasse a capire il potenziale della colonna sonora. Però solo dopo il Neorealismo. I film erano straordinari, ma le colonne sonore erano poco curate. Ogni tanto ci suonavo come strumentista, per fare due soldi, ma mi sembrava che si potesse fare molto di meglio. Fu negli anni Sessanta che le cose migliorarono. E fu lì che cominciai a lavorare, con il regista Luciano Salce. Facemmo Il federale, La voglia matta… Comunque la cosa molto diversa rispetto a oggi è che si lavorava a getto continuo. Io facevo anche l’arrangiatore per brani di quella che si chiamava musica leggera, scrivevo brani per radio e televisione.

Ho trovato un elenco su internet: a un certo punto lei viaggia a una media di venti colonne sonore l’anno. Oggi sarebbe impensabile.
Erano tanti, però il dato è falsato dal fatto che si usa la data di uscita al cinematografo, e non la lavorazione effettiva, durante la produzione. Comunque secondo me il dato più attendibile è dodici musiche da film all’anno.

Secondo lei, gli italiani hanno iniziato a darle la giusta importanza dopo aver visto la considerazione di cui godeva all’estero? 
No, io non credo. Sono sempre stato molto rispettato e richiesto. Tutti i registi italiani hanno cercato di lavorare con me: Pasolini, Bertolucci, Monicelli, Argento, Bellocchio, Tornatore… (ndr: l’elenco si protrae… E sono solo gli italiani). Se c’è qualcuno con cui non ho lavorato è perché si era fatto l’idea che io facessi “musiche per western”. E dire che sarà l’8% della mia produzione.

Ma The hateful eight è un western, no?
No, è un’avventura, ambientata sulle nevi del Wyoming. Mi ha ricordato da subito Il grande silenzio di Sergio Corbucci, con Klaus Kinsky e Jean-Louis Trintignant, con momenti in cui veniva esaltato il rumore dei cavalli sulla neve, e altri in cui la musica era padrona assoluta dell’ascolto dello spettatore, grazie al fatto che il protagonista era muto. In ogni caso Tarantino, quando è venuto a casa mia per portarmi il copione, non ha mai usato la parola western.

A molti è sembrato strano che tornaste a lavorare insieme, dopo che la vostra precedente collaborazione per Django unchained si era conclusa con una certa freddezza.
Io ho dichiarato che secondo me non usava la musica in modo coerente con la narrazione, e penso che abbia colto quello che volevo dire. Ci sono momenti di un film in cui la musica può prendersi uno spazio importante e dire più cose dei dialoghi, credo che Sergio Leone lo abbia dimostrato. È una cosa che gli suggerii io dopo Per un pugno di dollari, e mi pare che abbia funzionato molto bene. Più volte ho composto i brani per le scene decisive prima che lui le girasse. Che è una cosa che non ho mai amato fare, ma in quel caso serviva per fondere meglio narrazione visiva e musica.

Pensa che sia stato un elemento decisivo per la loro popolarità di massa?
In parte. Ma io credo che sia successo quando i registi hanno dimostrato intelligenza nel capire che la musica deve essere apprezzata dal pubblico. Perché tra gli elementi principali di un film ci sono immagini, dialogo e musica, e bisogna rispettare le capacità dei sensi. L’orecchio non deve essere troppo sollecitato, o mescolerà musica e dialoghi in un pasticcio sonoro. E alla musica dev’essere dato tempo, il cervello ne ha bisogno. Un brano importante deve poter crescere e declinare lentamente. La musica poi, essendo un elemento che non fa parte della realtà che avviene sullo schermo, è quella che soffre di più nel suo lavoro di servire la storia. Invece, la sua capacità di raccontare insieme alle immagini può dare risultati magistrali.
(di punto in bianco)
Lei suona uno strumento?
Lo facevo nel secolo scorso. E in modo agghiacciante.
Mi pare che scriva molto rapidamente, ha delle dita veramente veloci. Un peccato che vadano a formare lettere invece che note.
(momento di imbarazzo personale)
La ringrazio, ma so che non sarei stato un buon musicista. Con questa tastiera mi trovo meglio… Le faccio un’ultima domanda. Si parla molto, naturalmente, del suo lavoro con Leone. Com’era invece il suo rapporto con Pasolini?
Non ci intendemmo subito. Lui era una persona molto civile e già molto importante, aveva lavorato con tanti compositori; mi chiamò e mi disse che per Uccellacci e uccellini aveva già in mente dei pezzi di musica classica che voleva adoperare. Io allora gli dissi: “Lei ha sbagliato a chiamare me: io compongo”. Lui mi rispose: “Allora faccia quello che vuole”. E io feci quello che volevo. Con Teorema mi lascio ancora libertà: per quella storia pensai che ci voleva qualcosa di dissonante, da contrapporre al Requiem di Mozart, però citandolo. Ma poi per il Decameron tornò a fare di testa sua, mi chiese più che altro di assisterlo nella scelta di musiche napoletane dell’epoca. Non fui contento, ma mi fregò con la sua gentilezza. Col film successivo, Il fiore delle mille e una notte, fui di nuovo io a impormi. Arrivati a Salò, la scelta si fece di nuovo complicata. Io feci musiche abbastanza ovvie, volutamente sottotraccia per un discorso di gusto dei protagonisti, come il foxtrot che apre e chiude il film. I pezzi più significativi erano quelli per la pianista, quella che poi si getta dalla finestra; tra gli ultimi ne misi uno dodecafonico. Ma sapevo poco di quel film, lui non me lo fece vedere, non voleva impressionarmi. E aveva ragione, quando poi andai a vederlo al cinema, non ne fui felice.

 

(ndr: l’intervista risale al novembre 2015; una parte di essa è stata pubblicata sul mensile Style)

3 Risposte a “Il potere del suono. Intervista a Ennio Morricone”

  1. Colgo l’occasione di questo pezzo per complimentarmi per gli articoli sempre molto interessanti da leggere (e spesso molto divertenti, che non guasta)

  2. Ah, ma quindi si può intervistare Morricone senza ricorrere quasi esclusivamente all’aneddotica, si può anche sfruttare la sua immensa conoscenza musicale per affrontare argomenti che vadano oltre il “come ha trovato Los Angeles? Cosa ha provato nel momento in cui hanno pronunciato il suo nome?”.

    Bellissima intervista.

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