AMARGINE

In the end – Linkin Park e il cordoglio NON unanime

Quella di Chester Bennington, cantante dei Linkin Park, è una morte diversa da quelle delle rockstar passate a miglior vita nello scatenato 2016. Queste ultime hanno incontrato un senso di rammarico pressoché unanime, o comunque non contestato: persino il controverso e circense Keith Emerson, ai suoi tempi esecrato da tutti i critici oggi sopra i 50 anni, ha suscitato la sua piccola ondata di dispiacere.

Con Bennington, che appartiene a una generazione ancora sulla breccia e quindi non santificata a prescindere dalla retromania, inizia forse una nuova serie. Quella dei murocontromuro tra un cospicuo numero di fan dispiaciuti, e un altrettanto cospicuo numero di detrattori. I quali, avendo detratto la band con Bennington in vita, ritengono coerente detrarre anche in morte.

È una posizione complicata da contestare. Più di quel che sembra.

Non che gioire o ironizzare per la morte di qualcuno sia carino. Però il lutto per le celebrities è un meccanismo rodato di quel che resta della nostra anima, una modalità abituale del nostro immaginario – e il nostro immaginario oggi è del tutto pubblico, condiviso, e coinvolto in ondate emozionali sui social che nel giro di poche ore possono suscitare lo stesso fastidio delle battute ripetute con insistenza o delle polemiche che tengono banco troppo a lungo.

A margine, personalmente assegno ai Linkin Park un ruolo piuttosto importante nell’ultimissima levata di rockband, quelle che hanno significato qualcosa negli anni della morte del genere. E (sempre personalmente) anche se l’ultimo album mi è parso il segno di una resa, un tentativo di convertirsi al pop (e senza averlo dentro) sono piuttosto sensibile ai momenti migliori da loro conseguiti non tanto mescolando quanto apparentemente contrapponendo rock e suoni computerizzati, sfruttando il contrasto tra il rap laconico di Mike Shinoda e il grido esasperato di Bennington, che nei pezzi più emblematici sembrava davvero uno che si sentiva ingabbiato, e credo che tanti si riconoscessero nel suo grido e in particolare in una delle ultime strofe rock ad aver comunicato uno di quelli che una volta si chiamavano “malesseri generazionali”: parlo naturalmente di «I tried so hard and got so far, but in the end, it doesn’t really matter». Sembrava crederci, mentre lo urlava. E oggi poi – beh, che ve lo dico a fare.

Ma detto questo, ho una zolletta di comprensione per chi, anche con mala grazia, non trattiene un ghigno sprezzante, e verga giudizi col trinciapollo. Uno dei motivi è l’enorme popolarità dei Linkin Park e l’utilizzo, per definirne il suono, di vocaboli sacri: rock, metal, rap. A ciò si aggiunge la mal tollerata condivisione di certi spazi (festival, radio, siti musicali). Perché finché si tratta di generi sconsacrati (pop, dance, elettronica, e via alleggerendo) il tempio non è profanato. La reazione ostile avviene quando il proprio immaginario è sotto attacco, ed è questo che capita a chi frequenta un piccolo santuario musicale e sente che al sagrato si avvicina parecchia gente che inneggia a déi inammissibili. Possiamo preventivare altri futuri sbocchi di fastidio, anche perché della grande religione del rock oggi sono rimasti solo culti sparsi, e chi li professa si sente circondato dai pagani.

4 Risposte a “In the end – Linkin Park e il cordoglio NON unanime”

  1. Sarà un retaggio della mia educazione cattolica, o sarà che semplicemente lo trovo esibizionistico, ma non riesco ad essere così tollerante nei confronti di chi scrive frasi del tipo “ogni tanto una buona notizia”.
    Mi sembra un escamotage un po’ banale per far parlare di se stessi, la via facile facile alla polemica. Se muore qualcuno di cui mi frega poco non ne parlo, e stop.
    Dici che son troppo manicheo?

    1. Non so, forse in tutto quanto è aumentata la componente tifosa, dalla politica alla musica. In generale il livello degli scambi sui social tende a fare grandi passi verso l’autocontrollo delle liti ai semafori.

  2. mmmh, non lo so. Cornell si è ammazzato, mi piaceva un botto ma non capisco perché questo avrebbe dovuto “affrancarlo” dall’ammazzarsi. Voleva uccidersi? Lo facesse…. Mentre per Chester Bennignton… ha voluto ammazzarsi? Lo facesse, credo di capirne un po’ di musica ma i Linkin’ Park non mi sono mai tanto piaciuti. Se si fosse ammazzato / Se si è ammazzato il ragazzo o la ragazza sotto casa cosa direste? Ciao, è tutto. Ed è anche troppo.

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