AMARGINE

Lucio Dalla, la musica, gli album: questi fantasmi

(se Dalla non vi piace, niente di male, secondo me potete leggere lo stesso. Perché il punto non è strettissimamente Dalla)

Si inizia in uno studio di registrazione. Chitarre, amplificatori Marshall, cavi, nastri, lancette di VU che saltellano verso il rosso. C’è Maurizio Biancani, tecnico del suono e produttore, che muove cursori, isola suoni, isola la voce (quando Lucio Dalla scandisce nel silenzio “il pensiero come l’oceano non lo puoi bloccare non lo puoi recintare”, è inquietantissimo), commenta e chiede conto a Ron, seduto al suo fianco, delle scelte fatte per costruire le canzoni dell’album Come è profondo il mare.

Si possono fare documentari musicali in forma breve – e televisiva, quindi – in molti modi. Incrociando filmati d’epoca, camminando per le vie delle città, interpellando coloriti “addetti ai lavori” di altalenante competenza (e non lo fa solo la RAI coll’amichétti fatti cor pennello, lo fa anche la BBC). O lasciando agli artisti il compito di farsi umili testimoni della propria santità.

Ma questa modalità, il racconto a partire dal mixer (la cui versione più riuscita potrebbe essere la serie Classic Albums) è forse quella che più si attaglia a chi come me è tuttora annichilito dal mistero assai grande che erano, una volta, i dischi.

(naturalmente questo tipo di documentario è vintage per forza di cose: senza gli album, di cosa parleranno i documentari del 2037?) (no, ok, ce l’ho) (“Fedez, i retroscena del tatuaggio”) (“Benji & Fede: i tre selfie della svolta”) (“Levante: il pianto che scosse una generazione”) (“Laura Pausini: the making of l’accappatoio”) (“Gué Pequeno: the making of QUEL video su Instagram”)

Così inizia, parlando di suoni (perché per secoli abbiamo convenuto che erano i SUONI a fare la musica! Non l’attitudine, non il fattore X, non lo swag) Com’è profondo il mare, regia di Ruggero Longoni, direzione creativa di Giuseppe Domingo Romano, prima puntata di 33 Giri – Italian Masters, che dal 22 novembre inaugura su SkyArte una serie di sette puntate che includono Radici di Francesco Guccini, Pigro di Ivan Graziani, Crêuza de mä di Fabrizio De André, La voce del padrone di Franco Battiato, Far finta di essere sani di Giorgio Gaber e Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano.

Sì, si potevano scegliere altri dischi, ma si vede che questi erano quelli più fattibili per materiale disponibile. Tutti cantautori. Nessun gruppo. Nessuna donna. Quattro su sette sono trapassati. E tuttavia non c’è Battisti. Immagino che se avessero potuto l’avrebbero incluso – insomma non è una lista di migliori, okay? Sono questi, prendere o lasciare, io credo possano essere interessanti in ogni caso. Anche se spesso l’artista è impossibilitato a raccontarsi. Chissà se non è un vantaggio.

Nel caso di Dalla ho la sensazione che lo sia. La sua assenza mette in rilievo il contributo di tutti gli altri, e nel contempo sollecita una rispettosa aneddotica da parte degli interpellati: molto Ron e Ricky Portera, pochissimo Mara Maionchi e Jimmy Villotti. Ascoltandoli, un album di quarant’anni fa viene scomposto e ricostruito in modo molto, molto interessante. Tipo così:

Samuele Bersani: “A un certo punto era visto come un rottame, pur essendo passato a Sanremo, ai concerti lo contestavano, gli tiravano la verdura”.

Ron: “Aveva attraversato gli anni di piombo coi testi di Roversi, bisognava dire certe cose altrimenti eri morto. Lui si trasformò in un cantautore che parlava comunque sempre del popolo, dell’amarezza della vita, della presenza di un potere. A marzo c’erano stati incidenti a Bologna, erano arrivati i carrarmati, lui era molto impaurito”.

Ricky Portera: “Quando lo incontrai non era un piccolo borghese, era un rivoluzionario: aveva deciso di rompere col proprio passato e scriversi i testi da solo”.

(Sandro Colombini, produttore, durante la presentazione: “Per scrivere Com’è profondo il mare bisogna uscire e girare di notte. Bisogna aver visto la gente, bisogna aver visto i linotipisti, che la gente non ha idea di chi siano”)

Portera: “Lucio mi ha fatto suonare delle cose che neanche Mussorgski si sarebbe sognato, delle enarmonie che lasciano perplessi. Anche in Com’è profondo il mare, c’è una contrapposizione inusuale, un fa diesis su un do”.

Ron: “Queste chitarre, una 12 e una 6 corde, sono io che le suono. Ascoltavo molto Neil Young, da lui ho preso questo tipo di battuta, coi colpetti alla cassa col palmo della mano, a creare una specie di compressione”.

Biancani: “Ci sono dei synth ma la chitarra è predominante”.

Bersani: “Sotto c’è un basso ostinato che non è tipico del pop italiano, è quasi progressive”.

Ron: “Qui senti anche la povertà dei cori: sembriamo quattro ubriachi. Lucio non chiedeva di essere perfettini. A differenza di adesso i dischi si facevano tutti assieme in studio, non dovevi fare una preproduzione con batteria finta, poi aggiungere le tastiere, poi magari in studio levarle… Lucio ci diceva cosa voleva e noi cercavamo di seguirlo. Ci sono sporcature, si sente che a volte non si va tutti insieme, questo è il bello”.

(domande del sottoscritto a Ron, a fine presentazione: “Ma cosa ascoltavate in quel periodo?” “Lui avrebbe ascoltato sempre jazz, io gli facevo sentire molta Joni Mitchell e James Taylor“. “Il documentario sottolinea che avevate i sintetizzatori ma non li avete messi in primo piano”. “Sì, ci siamo andati molto cauti, non avevamo ancora molta familiarità e poi erano strumenti ancora un po’ da interpretare, li abbiamo usati per colorare il suono, mai per appoggiarci i pezzi”)

Bersani: “Per me è un disco onirico che è vicinissimo a come ricordo io Lucio, col suo senso costante della musica anche quando partiva dal rumore. Per un disco successivo passò giornate intere a lanciare chiavi per terra, registrandole, perché secondo lui quel suono ci avrebbe fatto vendere migliaia di copie in più… Poi non accadde”.

Fosse tutto così, io sarei completamente in solluchero.

Invece lo sono solo in parte. Avendo cercato di individuare una nuova formula, la casa di produzione (Except) ha scelto di far eseguire alcuni brani dagli ospiti: Ron suona e canta Quale allegria, e Riccardo Sinigallia e Laura Arzilli eseguono Com’è profondo il mare. Due buone versioni – quella di Ron al piano, in particolare, malgrado qualche tremito del buon Rosalino evidenzia nella composizione una vaga reminiscenza di Carole King, della quale tra l’altro Dalla reinterpretò You’ve got a friend – ma queste cover tolgono minutaggio all’album celebrato, del quale alla fine non vengono commentati tutti i pezzi (…Sinigallia poi, malgrado la discreta esibizione, fa accapponare le orecchie quando si erge a opinionista). I brani “minori” vengono tralasciati, si parla solo della title-track, di Disperato erotico stomp, Quale allegria, Il cucciolo Alfredo, e un pochino di Corso Buenos Aires.

E tuttavia, urrà. Perché l’attenzione alla creazione in studio (che Dalla piaccia o no, come premettevo) sottrae l’artista alla solita beatificazione che tanto piace e tanto fa comodo, ma sposta l’attenzione sulla musica e sul momento della composizione (proprio nel senso della composizione delle sue parti). Sull’album come raccolta di racconti, favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude. E la distoglie anche dalla pura esecuzione, per la quale da anni si smania in omaggio alla verità del live, al rito collettivo del concerto, all’esperienza salvifica dell’ostensione ai fedeli del mistico corpo del divo.

Non so ora se la stessa scelta sia stata fatta per tutti gli altri – sarebbe incredibile un documentario su De André senza i fatidici caruggi. Però posso dire che Com’è profondo il mare di Lucio Dalla, testé ristampato e ripulito per il 40ennale, non aveva (mi perdonino i devoti) mai realmente ottenuto la mia attenzione.

Lo devo ammettere, mi ero perso qualcosa.

3 Risposte a “Lucio Dalla, la musica, gli album: questi fantasmi”

  1. Gran disco, gran bel programma ( con tutte quelle cose che dici tu, tutte vere, che comunque non vanno a inficiare troppo l’omaggio a Dalla).
    Io che ho amato i Classic Album – alcuni sono commoventi, a memoria ricordo uno Steely Dan ( su Aja) e uno Stevie Wonder ( su Songs in the key…) memorabili – lo trovo un bel progetto. Felice di leggerne qui da te.

  2. Si, piuttosto perfezionisti direi…Michael McDonald che incide decine di tracce per fare il coro di Aja è un altro esempio…

I commenti sono chiusi.