AMARGINE

Dieci anni SU Rollinstòn. Parte prima (…ma arriva dopo)

Ci sono molte premesse possibili a quanto state per leggere.

La prepremessa è che il giornale Rollinstòn ha appena pubblicato il numero antologico del decennale e festeggiato la festa del decennale. Né l’uno né l’altra mi hanno particolarmente divertito. Voi lancerete l’infame insinuazione: “Perché finalmente non hai fatto il gallo cedrone in nessuno dei due ambiti”. Farabutti, ci avete preso. Ma vedete, sono uno dei – credo – quattro, su centinaia, che hanno lavorato ininterrottamente a quel giornale per tutti questi diec’anni; malgrado ciò, della mia riverita personcina l’antologia in questione ha incluso giusto 4-5 recensioni nelle ultime pagine, e senza fare la carineria di firmarle. E dire che tra le dozzine di interviste fatte, mi pareva di aver piazzato qualche personaggio oggettivamente significativo per la musica (e non solo) nella decade percorsa. Mugugnando in gran dispitto, ho deciso di fare da me, pratica consolatoria sempre gratificante, ecco. Vi dà fastidio?
(…dove lo trovate un altro che vi chiede il permesso di pubblicare delle robe sul suo blog?)

Orbene. Anche se so bene che bocconi ben più golosi sono gli aneddoti lesterbanghi e le interviste cruente, le guerre con gli uffici stampa e le lettere di insulti dei fan, i retroscena o i gossip di redazione, la prima portata sarà costituita dal pane del giornale musicale ammodino: le recensioni. Queste che state per (eventualmente) leggere provengono dal primo quinquennio di Rolling Stone. Alcuni nomi fanno un effetto strano, certi dischi proprio non ricordavo di averli recensiti, sapete. Non sono mai dischi che ho scelto, mi vengono assegnati dalla redazione come compitini, il che è da sempre il mio sistema preferito: mi riporta a scuola, e al brivido nell’apprendere il tema da svolgere durante il compito in classe. Parlando di scuola, i voti che vedete mi sembrano meno imbarazzanti di quanto temevo, ché ogni recensore ha l’incubo di vedersi rinfacciare le due stelline alla pietramiliare o le cinque stelle al bitume. Tenete conto che quasi sempre per le recensioni viene dato un tempo di ascolto vicino al risibile, che tocca i suoi vertici nella pratica dell’ascolto in casa discografica, con l’addetto stampa che vi guarda sconsolato mentre sentite un album, in condizioni che non sono quelle in cui non lo sentireste (o apprezzereste) (o disprezzereste) normalmente, cioè a casa, o in viaggio in auto, o in autobus con le cuffie, o in discuteca.

E’ chiaro che il voto che oggi mi procurerebbe più cippirimerlo, dai ruvidi lettori del giornale fighetto, sono le 4 stelle a Britney, ma evidentemente nel costellarla, in quella situazione e quel contesto, ebbi a pensare che ci stessero. Tenuto conto comunque che ogni album – lo vado predicando ginocchioni da anni – va valutato rispetto ai suoi pari, e in una stessa partita il voto 7 a Totti ha motivazioni ben diverse da un 7 a Chiellini (…posto che quest’ultimo implica sempre del raccapriccio), così come è naturale che dal disco di Shaggy mi aspetti cose ben diverse rispetto al disco di PJ Harvey.
Ma bando alle ciance. Ecco una quindicina di recensioni prese alla rinfusa (di alcune ho invero perso i file). Mi scuso per la mancanza delle espressioni “sonorità liquide” e “tappeti sonori”, e gli aggettivi “krauta” e “seminale”: prometto che prima o poi ne farò uso.

Vitalic
Live
PIAS
*

Presenziare al dj set del francese Pascal Arbez è, ci assicurano, molto divertente, e lui nella nicchia elettronica gode di una certa stima. Il problema è che dal punto di vista dell’ascolto, quanto potete sentire nella registrazione di questo show belga non è apprezzabile se slegato da un contorno di gente sudata, abbronzata, sorridente, con magliettine attilate e chimicamente un po’ alterata – oh, mica vogliamo fare la morale a nessuno!, ma sottolineare che è soprattutto il pubblico che ci mette del suo per trovare motivi di entusiasmo (“Wuu-huuu!”) in certi groove che nemmeno il gameboy, o per un “uooiiiiing” cavato dalla tastiera. Il massimo valore che potete trovare in questo disco è la possibilità di spakkarci i diffusori dell’autoradio. Se proprio avete questa necessità.

P.J. Harvey
Please Leave Quietly
Island
***

Eccola a 15 anni di carriera, passati nell’indecisione se schivare i riflettori o attirarli, giocando con una bellezza sghemba, alternando look da racchia e da gnocca, oscillando tra rivendicazioni furibonde e languori amorosi da stranguglioni. Noi fanz, dal regalo tanto atteso (il primo DVD) ci aspettavamo qualche indizio, appigli per avvicinare questa donna inafferrabile ed elusiva. Cosa ci è dato? Immagini dall’ultimo tour, intervallate da autointerviste sul concetto di girare il mondo suonando. Due inediti, Uh huh her (che titola l’ultimo album pur essendone esclusa) e Evol (va scritto con un cuoricino al posto della o). Cosa ci è negato? Alcuni brani chiave del suo repertorio (ad esempio Shame o tutto l’album Stories From The City) e più in generale un contatto emozionale. Cosa ci resta? Mancato appagamento. Ma, come dire: is this desire?

Goo Goo Dolls
Let Love In
Warner
**

E’ appropriato che a produrre l’ottavo disco della onesta (ma ingrigita) rockband di Buffalo sia Glen Ballard. Con l’uomo che 10 anni fa affilò gli elettrici nervi di Alanis Morissette (di recente ingaggiato anche da Elisa) l’allarmante clima di precoce revival anni ‘90 è completo. Le ombre del decennio andato e di un rock da mandare a palla sull’autoradio della macchina di papà incombono su tutto il disco. E l’ombra di Iris, la canzone da accendini che nel 1998 catapultò la onesta (ma grigia) rockband in tutto il mondo, incombe sulle nuove oneste (ma bigie) canzoni. “Ho scritto Better days”, dice John Rzeznik “per dire alla gente che dovremmo schiacciare il pulsante reset e ricominciare da capo”. Sarebbe bello, ma è tardi: l’ora in cui le ombre si allungano.

Status Quo
In Search of the Fourth Chord
Edel
*** ½

Il miglior titolo dell’anno, e una grandiosa copertina: il gruppo di “rock ignorante” per eccellenza, la band che è stata infinita fonte di ispirazione per la parodia Spinal Tap, si rappresenta come la dipingono i critici, impegnata nell’avventurosa e (per loro) eroica ricerca di un quarto accordo di chitarra da aggiungere, dopo 45 anni (!) al loro 12 bar boogie. Peccato che nel disco lo facciano davvero: qua e là Francis Rossi e Rick Parfitt si piccano di avere diverse frecce stilistiche al proprio arco; ma la realtà è che il meglio lo danno quando restano fedeli allo status quo degli Status Quo: riff e ritornelli che sembrano tolti dal frigo e schiaffati in forno per una cena che non è da gourmet, ma alla fine toglie una certa fame di grasso rock di una volta, senza complicazioni e adulterazioni.

Rooney
Calling the World
Geffen
** ½

Nel 2027 ci ritroveremo, noi e voi, a casa di un amico comune, e un pezzo mandato dalle radio per brizzolati (“Tutte le hit dei magici 90es! E 00es! E 10es!”) ci farà sorridere e ingaggiare una bella discussione nostalgica e divertita: “Questi erano i Rooney, vero?” “Li ho ascoltati tutta un’estate, l’anno del viaggio in California con Patato”. “Già, a proposito, che ne è stato di Patato?” “Eh, si è ucciso a colpi di badile”. “Erano carini i Rooney, però”. “Sì, facevano un po’ di tutto, erano carini”. “Sai, all’epoca non mi piacevano tanto, li trovavo un po’ una rimasticatura di pop dei 60es e 70es ed 80es”. “Però a risentirli sono meglio della brutta musica di adesso”. “Ah, certo!”. Ecco, andrà così. Quindi, per parlare bene dei Rooney, ci vediamo nel 2027. Oh, beh – tranne Patato, naturalmente.

Marlene Kuntz
Uno
Virgin
****

Non è un disco fatto per essere scaricato e ascoltato a tocchi, questo. Ci si negherebbe un’esperienza simile a camminare verso il centro di una città passando prima dalla periferia, brutta eppure compiaciuta come certi coattoni, o come certe band “storiche” inconcludenti, verbose e narcise (sì, quelli là). Tanto che all’inizio del cammino viene da inveire contro Godano che fa il birignao del poeta e Maroccolo che pare non ci sia e gli altri due che sembrano ridotti a turnisti che accompagnano il cantautore. Però poi, gradualmente, ci si avvicina al cuore della città, alle sue cattedrali e giardini e luci e vie più nascoste, e il disco che prima pareva fastidiosamente pretenzioso prende quota, e a tratti vola proprio alto. Ecco, è allora che si capisce perché questo gruppo andrebbe protetto – a volte, anche da se stesso.

Annie Lennox
Songs Of Mass Destruction
RCA
***

La voce di Annie Lennox è un grimaldello: in passato apriva senza difficoltà ogni difesa si erigesse davanti al pop di Dave Stewart, furbo confezionatore di singoli, quanto limitato produttore di album – del resto, lontano dalla sua musa è sempre andato a sbattere. Ma quella voce! Bastava un “Oooh!”, e ogni canzone degli Eurythmics, persino i brani buttati lì a riempire, si caricavano di pathos, diventavano realmente emozionanti. Questo quarto album solista insinua il dubbio che una volta entrata nella nostra anima a colpi di voce, Annie si limiti a farci un giro e andarsene, lasciando ben poco. Più che altro, lasciando poca musica. Resistendo (strenuamente) alla struggente timbrica, alle calde impennate – come se prendesse fuoco mentre si addentra nelle strofe – persino alla dizione che sembra smussare le consonanti e trasformarle in vocali, si scopre che Annie gira attorno a una formula rassicurante, elaborata in trent’anni di carriera. Sa come far balzare in piedi i suoi fans grandicelli, con blues eleganti ma serrati che paiono presi da Revenge, o ammaliarli con pezzi che paiono potersi fondere da un momento all’altro con No More I Love You’s, per non parlare di Coloured Bedspread che ricorda tanto Sweet Dreams, o Womankind che è figlia di Sisters Are Doin’it… Quanti ricordi, vero? Già. Appunto.

Mark Knopfler
Kill to Get Crimson
Mercury
**

Eh, che dire. Partiamo dalle certezze: la voce. Quella dell’ex leader dei Dire Straits, ma anche quella della sua chitarra: sempre uguali, calde e languide… Ma tutto questo, lo sapevate già. Allora aggiungiamo che a mettere questo disco per ammorbidire una serata, non si sbaglia. E poi che comunque a Knop gli si vuole bene e che quello che fa, lo fa meglio di tutti. Però, detto questo, c’è un limite a tutto, anche alla pazienza per queste fumose malinconie per vecchi cowboy urbani. Ma cos’è (perdonate il piglio triviale – ma quando ci vuole), gli hanno tagliato le palle? O è un caso di lombaggine mentale? Davvero sembra che ci sia qualcosa di clinico, e non è Industrial Disease. Aridatece lo swinghe!

The Donnas
Bitchin’
Cooking vinyl
*

Alla fine ci sono arrivati: l’unico vero motivo di appeal delle Donnas sono le chiappe femminili in primo piano in copertina. “Volevamo raggiungere un pubblico più ampio”, dice la cantante Brett Anderson. Ma va, davvero? Caspita, chi l’avrebbe detto: prendete le Spice Girls, aggiungete un po’ di bangbang in sottofondo e assoli tirati giù dai brani più tozzi di Europe e Bon Jovi. Fatto? Poi, nell’ora di chimica, scarabocchiate sulla vostra Smemoranda dei testi da far impallidire Heather Parisi, ed ecco la più tardiva (ma non la più effemminata, a nostra memoria) tra le band di hair metal. Davvero un cattivo esempio per le giovani generazioni: per le teenager con un’anima selvaggia, molto meglio zia Courtney Love oppure Juliette Lewis, o casomai le Pipettes – ma che diamine, persino Avril Lavigne.

Britney Spears
Blackout
Sony
****

Premessa forte e chiara: lei è ‘na cretina, e col botto. Ma complimenti a chi ha pensato questo disco. Produzione dance elettronica, feroce, che pesca sia da Timbaland sia, come nonna Madonna, dagli anni 70: queste sono le sue Confessions on the Dance Floor – niente ballate, e testi che danno al pubblico quel che vuole: il personaggio, e non la persona. Mentre la Aguilera ha puntato su un target più adulto, la Spears, sputtanata e con le spalle al muro, chiede aiuto alla base leale dei fans giovanissimi. Così, tra due anni questo disco suonerà ridicolo, ma ora funziona. Del resto il domani non le è mai interessato, lei è sempre stata il presente, e nel presente la storia “Barbie è cresciuta” non se la berrebbe nessuno. Ma certo se la musica da masticare fosse tutta così, non sarebbe male, eh.

Spice Girls
Greatest Hits
EMI
* ½

Uh, com’erano scarse. Non fosse per la strana voce di Mel C che toglie un po’ di banalità ai brani (pensate, per scrivere una roba come Holler si sono messi in sette) le ricorderemmo semplicemente per esser state la prima versione delle Winx – e questo è il loro meglio, eh? D’altronde, a chi interessavano le canzoni? Erano parte del baraccone come le Spice patatine e lo Spice scooter, lo Spice zainetto o il rimarchevole Spice Movie. Pezzi nemmeno così freschi e divertenti, tranne Stop e Spice Up Your Life – la fase di scopiazzatura dei gruppi vocali anni 60. Comunque, grazie ai network radio per aver trasmesso senza requie questo becchime – i giornalisti come categoria non sono molto amati, però mai nessuno che dica che il 99% dei responsabili dell’airplay disprezza profondamente, sinceramente, disperatamente la musica e gli ascoltatori.

Sergio Endrigo
Ciao poeta
Sony BMG
***

Endrigo è il cliché del grande trascurato, l’artista accantonato da “questo mondo di oggi direi così volgare e superficiale” (cfr. presentazione di Gianni Borgna, assessore alla cultura a Roma per tre lustri – anvedi). Ma se vedesse questo tributo, i colleghi compunti in nero (Vecchioni, Tetes de Bois, Cammariere, Nada, il solito Morgan, Cristicchi), l’atmosfera dolente e gli spettatori spazzolati, un dubbio sulle difficoltà del pubblico nel seguirlo gli verrebbe. Sì, ci sono canzoni tristi e stupende (Via Broletto 34, Lontano dagli occhi, Le parole dell’addio) ma anche tristissime e meno belle, in una serata da depressi veri davanti alla quale lui, cinico autore del libro Quanto mi dai se mi sparo? ammetterebbe che intrattenere con le poesie invece che con le canzonette è un lusso, e ha un suo prezzo.

Shaggy
Intoxication
VP Records
***

Anche se volessimo dirne male, che senso avrebbe? Mr. Lovalova è l’amico cialtrone con cui andare a fare un giro sul lungomare mugolando alle tipe, è il vicino di casa sfasato che ti si piazza sul divano e straparla mentre fa zapping, è quello che dove lo metti sta, che è troppo scardinato per regalarti una serata esaltante ma è in grado di salvartela se sei giù. Impossibile da prendere sul serio, impossibile da liquidare con sufficienza perché alla fine un sorriso te lo strappa sempre, il testone te lo fa muovere, e in questo disco lo fa con due astuzie: una verniciata di mood kingstoniano cui è difficile opporsi, e l’accortezza di non occupare sempre la scena col suo vociare, lasciando fare agli amici (Akon, Nasha, Rayvon e altri) se è il caso. Perché lui, l’amicone lo sa fare.

John De Leo
Vago svanendo
** ½
(Carosello)

Lui gorgheggia, spernacchia, impenna, cinguetta. Dissemina giochini, virtuosismi, forza se stesso e l’ascoltatore, gli chiede di non accontentarsi. Ma a metà disco ecco spuntare quello che non ha paura di far la figura dello scemo (…che tanto, ormai) che si alza e chiede: “Ma John, tu punti a farti ascoltare o all’ennesimo premio della critica?” Perché in tanta fiera vocale oltremodo fiera, pare quasi che l’ex cantante dei Quintorigo sia prigioniero della sua abilità vocale, del sapere di avere ali potenti, e di doversi spingere parecchio in alto – là dove noi fessi non lo vediamo più. Chissà, forse questa cosa dell’eredità di Demetrio Stratos sta diventando un peso, compresa la necessità di ribadirla nel gioco finale (molto bello, peraltro) della ghost-track, invocando di esser benedetto da chi cantò Maledetti.

Roberto Vecchioni
Di rabbia e di stelle
(Universal)
**

Andrea Pazienza ci aveva preso, in quella striscia di 25 anni fa in cui fumettava se stesso con le parole: “Son qui che ascolto Vecchioni – e mi sento vecchione”. Sì, ai suoi fans della prima fila piace così (e a se stesso, piace così), ma qui all’ultimo banco le lezioncine ci pare di averle già sentite tutte, tante volte: oh sto invecchiando, oh i vent’anni e le luci a san siro, oh bastardi che avete rovinato il mondo, oh quanta consolazione nella cultura (e vai coi soliti titoli presi in libreria e al cinema d’essai). Noi saremo anche somari, ma la sensazione è di uno che è lì avvinghiato alla cattedra a tirare brillantemente il 27 del mese, mediocre risultato col minimo sforzo, e se poi ai somari della classe non si accende la scintilla il prof si autoassolve, che si sa che la colpa è della tv.

Sheryl Crow
Detours
Universal
****

Questa signora ha un suo che. Anche tenendo conto dei suoi peccatucci, s’intende.  Personaggio enigmatico, non troppo amato dalla critica rock americana più autorevole, che in non poche occasioni ha fatto intuire di ritenerla sopravvalutata e furba, abbastanza furba da aver scientemente deciso di vendersi a tutti i pubblici che in quella landa lieta entrano al Wal-Mart a sganciare i dollari per i cd: il pubblico del country, quello soft-rock dei brizzolati, e persino quello alt-rock quando si mette certi frugali panni di cantautrice inquieta. E non finisce qui: altri insinuano che non ha una gran voce, che personalmente è freddina, che farebbe qualsiasi cosa per farsi notare, e che i suoi testi (e anche in questo album succede, vedi il singolo Love Is Free) non di rado fanno accapponare i denti. Eppure, questa signora ha un che. E non quando si butta nel pop, nel quale, eccettuato qualche raro momento felice, raramente ha trovato la sua dimensione. Ma quando riesce a scendere in strada, e dare l’impressione di essere la voce dell’America in persona. Un’America ancora seducente ma anche provata e stanca, cinica eppure naif, perennemente in attesa di un sospirato riscatto. Detours non è un capolavoro, forse alla sua autrice non è nemmeno giusto chiederlo. Però tra i suoi soavi (e furbi!) ammiccamenti e le sue prevedibili aperture c’è un senso di calore, di ospitalità da vecchia roadhouse, che è oggettivamente difficile non trovare piacevole. Perché, come dire, ha un suo che.

Elio e le Storie Tese
Studentessi
Hukapan
**

Eccepire sugli Elii è rischioso: accingendomi a farlo sento che, come De Gasperi alla Conferenza di Parigi, da ora in poi tutto sarà contro di me tranne la vostra personale cortesia. Perché gli Elii hanno fatto molto per tutti noi. Forse non siamo diventati “fave”, ma dal giorno in cui li udimmo per la prima volta, vuoi con John Holmes, vuoi con Servi della Gleba, vuoi con le sigle di Mai dire gol, vuoi con quel che volete, la nostra vita è cambiata in meglio. E non perché “ci hanno fatto ridere”, bensì per la loro statura di struggentissimi poeti. Forse solo il Leopardi, fantastico zimbello, avrebbe potuto descrivere così bene l’angoscia della “dannata festa delle medie”; forse solo l’Alighieri, tra un tentativo e l’altro di farsi notare da Beatrice (con un cartello con scritto “Songhe ie”) avrebbe potuto sonettare sulla ragazza che limona sola. 
Ma oggi? Che cosa resta del nostro amore, travolto da citazioni, omaggi, virtuosismi, e una quantità di ospitate che nemmeno a Domenica In? Claudione, Paolona, Bisione, Maurizione Crozza e Carlona Fracci e troppi altri, che lungi dal dare il contributo decisivo di Giorgia a TVUMDB o Ruggeri al Vitello, sembrano lì ad appuntarsi la medaglia dell’autoironia che spetta a chi spalleggia il simpatico complessino milanese. Cosa resta, tra ironie (di nuovo) sui generi musicali o sui messaggi (di nuovo) satanici? Dopo che si son riconosciute le canzoni citate? Oh, senti il tributo a Morricone nel pezzo western. Oh, senti Baglioni. Oh, senti come suonano!!! Ok, sentiti… E allora? Il problema di fondo è che gli Elii, un tempo squadra che andava in porta con due tocchi, oggi mostrano un gioco involuto tipo il Milan di inizio stagione. Forse oggi i maestri non danno più il loro tempo migliore alla musica, ma alle tante attività collaterali: libri, tg, teatro, doppiaggi, architettura (Mangoni) e chi più ne ha.
Ma soprattutto, pesa il confronto con quanto hanno già fatto. Il dovere di superarsi, di fare cose nuove, l’abitudine a stravincere – che porta a strafare. Ma è dura. Come è dura trovare nuovi generi da passare ai raggi x, o nuovi argomenti. Perché se ci pensate, ieri gli Elii colpivano dei nervi scoperti: la popolarità di certi pezzi che tutti noi ci citiamo a guisa di proverbi è data dal fatto che Servi della gleba, Cara ti amo, La terra dei cachi ma anche pezzi come Farmacista o Supergiovane erano saggi di alta scuola, gridavano quanto noi riuscivamo a intuire sulla vita, sull’amore e sull’uomo moderno nervosetto, e che non sentivamo cantare da nessun altro. Oggi, il tema mare-montagna è fiacco e non ispira nemmeno loro. Lo spunto di Plafone (“All’assemblea di condominio farò valere tutti i miei millesimi”) potrebbe essere irresistibile. Invece. La tristezza avrebbe le potenzialità del classico. Invece. Il congresso delle parti molli e Parco Sempione sono scarti, rispetto alle Peeerle dei cd precedenti. Il recensore si sganascia per Gargaroz, ma sa che se passa non dico un Supergiovane, ma anche un Amico Uligano, la spazza via. Laonde, chiudiamo con due invocazioni. O Elii, giungavi la nostra critica d’amore: come dicono nel west, “Easy does it”. E quanto a voi, o fans, non indignatevi per le due stelle, dicendo: “Ma che giornaledimmerda RollingStone, che dà 2 stelle a EELST e ne dà 3 a…” E’ che dagli studentessi ci si aspetta poco; dai maestri, molto di più.