AMARGINE

Dite addio alle voci (Do they know it’s Christmas)

(SNEAK PREVIEW: in arrivo su aMargine, come su ogni sito e blog ammodino, il consuntivo del 2014)
(intitolato ROBE BRUTTE) (ecco alcune immagini in anteprima)
(“Controveeento…” “Credo di non entrarci più nulla con le derive che ha preso questa trasmissione” “I’m the albatraoz!”)
(ma torniamo a noi)

Non credo che quanto sto per scrivere sia nostalgico. Non ho nostalgia per le cose che sono già successe, per le cose che abbiamo già sentito. Anche perché non ha senso rimpiangerle: in fondo, sono sempre qui, no?
Volevo condividere (condividere! yeah!) con voi una cosa che ho notato in occasione della dupallesima nuova versione di Do they know it’s Christmas messa in piedi da Saint Bob Geldof. Le precedenti riedizioni – di cui magari non sapevate niente! LOL – erano state un disastro, soprattutto a causa del cast un po’ abborracciato. Ma questa volta, per il 30ennale, i partecipanti sono alcuni dei top player del pop britannico contemporaneo, proprio come era successo nel 1984. Ci sono Sam Smith, One Direction, Rita Ora, Emeli Sandé, Paloma Faith, Chris Martin, Ellie Goulding, Ed Sheeran, Bastille e altri ancora. Anche se alcuni di questi nomi non vi strabiliano, fidatevi: pur in mancanza di Adele (rifiutatasi sdegnosamente) più o meno l’impatto sull’immaginario giovanile è – o dovrebbe essere – lo stesso che avevano all’epoca Boy George, Simon Le Bon, Paul Young, George Michael, Sting, Bono (che c’è anche stavolta, ma ne parliamo dopo, eventualmente) (ma non necessariamente).

Scusate un momento. Ho usato l’espressione “dovrebbe essere”.
Che forse è un po’ ambigua. Rischia di portare a conclusioni del tipo “Per i ragazzi di oggi la musica non è importante come per le generazioni precedenti”.
Non credo sia vero. Rimane importante, anche se non la comprano. Però credo sia vero che contiene meno immaginario. I cantanti, per quanto sempre più iconizzati da chi li decanta (noi: i decantanti), sono sempre meno eroi e simboli e principiazzurri. Credo che Directioneers e Beliebers e Fedeziners (boh, mica lo so come si chiamino) abbiano un rapporto più sano e consapevole coi loro hashtag viventi di quello che abbiamo avuto – e continuiamo ad avere – noi vecchie carampane coi nostri Vaschi e i nostri Boss e i nostri Jacki.
Un po’ è un bene. Un po’ è un male. Un po’, detto tra noi, fa niente. Facciamo i darwiniani e consideriamolo solo un dato di fatto.
Ma non volevo parlare di questo, maledizione! Vi stavo dicendo invece della reazione degli ascoltatori. Tanti ma tanti commenti su YouTube o Facebook, anche tra gli utenti evidentemente giovani, confessano di aver fatto una gran fatica a individuare le voci dal solo ascolto radiofonico.

Ecco, qui mi sbilancio, e invece di dire “fa niente”, dico che è un male – ma doveva pur succedere. Anzi, pensandoci, è strano che non sia successo prima, è strano che negli anni 80 e 90 ci siano state così tante voci caratteristiche e mitologiche forse proprio in quanto ineducate. Sta di fatto che oggi sono sempre meno. E’ sempre più raro sentir emergere un timbro facilmente riconoscibile anche dai non appassionati, dai tanti che pur non malati di musica, avrebbero comunque beccato dopo un secondo Dylan e Plant e Jagger e Stevie Wonder e Barry White e Sting e Simon Le Bon e Phil Collins e Springsteen e Madonna e Knopfler e Brian Johnson e Dave Gahan e Steve Tyler e Liam Gallagher (e perdiana metteteci voi gli altri, che io ne ho già messi il triplo dei nomi che andrebbero messi quando si fanno gli esempi). 
Tra i maschi la cosa è quasi sconfortante. Sam Smith. Pharrell… Woodkid? Tra gli artisti saliti in cattedra negli ultimi dieci anni, non riesco a individuare più di tre-quattro voci che in qualche modo, come timbrica, come colore, non c’erano già. E che comunque non si somiglino tra loro. E’ come se anche nella musica i doppiatori italiani avessero imposto la loro spietata, piattissima legge. Come diceva George Orwell, se volete un’immagine del futuro immaginate Pino Insegno che parla nelle vostre orecchie per l’eternità.

Veniamo allora alle femmine, che sono padrone del gioco oggidì. Lady Gaga non ha una voce unica. Katy Perry nemmeno. Florence e Adele, io ci ho anche un certo debole, ma ammetterete che non sono Voci Che Non C’Erano, come a suo tempo sono state invece Kate Bush o Sinead O’Connor o Chrissie Hynde o Patti Smith o Joni Mitchell (fermatemi). Con Rihanna e Shakira va già un po’ meglio, e pure con Lorde. Sì, qualcuna c’è. Anche se molte sembrano sforzarsi di fare del citazionismo vocale (Lana Del Rey è il nome più ovvio) (ragion per cui lo faccio) (…visto che mi trovo qui). Del resto non credo sia stato un caso se Amy Winehouse ha avuto un tale impatto da generare immediatamente imitatrici.

Ma se anche non vi ho convinto, se siete persuasi che ci sia una grande varietà in top ten, mi date almeno atto che è minore rispetto allo scenario del secolo scorso? Per dire: le Spice Girls. E’ stato un tantino trascurato il fatto che anche le loro voci fossero fortemente personali – e che la voce-chiave, quella che conferiva un valore aggiunto che tutte le All Saints del mondo non avrebbero mai ottenuto, era quella più anomala del mazzo, quella di Melanie Chisholm (aka Sporty) (aka: la voce che sembrava sempre rallentare i pezzi).

Nella Mia Umile Opinione, tanta piattitudine ha diverse cause. Cito subito i talent show – non posso non farlo. Che portino all’omologazione è evidente. Non mi sento di accusare i loro selezionatori di operare consapevolmente in questo senso, forse è un’attitudine inconscia. Perché ci sono timbri che rassicurano, che sembrano promettere più estensione e potenza di altri, che funzioneranno perché somigliano a qualcos’altro che funziona, e questo è quel che conta – pazienza se sono meno speziati: il ristorante deve rivolgersi a una clientela ampia, ampia, sempre più ampia, che sbalordisca di quello che wow, gli pare proprio un vocione.

(Tommy Mottola sapeva il fatto suo, quando si è inventato la gorgheggiona Mariah Carey)

Certo possiamo citare anche i vocal coach e maestri di canto – dei quali diffido fin da quando trasformarono la voce di Madonna, la quale dopo i primi tre dischi passò dall’emissione di Olivia di Braccio di Ferro a quella di Alberto Lupo. Ma mi sento di citare anche una ragione tecnica. Ne parlavo con Pinaxa, fonico e luogotenente di Battiato: per quelli che mettono fisicamente i suoni sui dischi oggi, la voce è un suono come un altro. Rispetto ai decenni scorsi, non deve risaltare in modo particolare: deve impastarsi per bene, farsi modellare. E in una fase in cui i produttori sono star pagate, conosciute e capricciose quanto se non più del cantante, un timbro che non si innalzi troppo su quanto lo circonda è più che funzionale. “Lo scemo al microfono non vorrà mica distogliere l’attenzione da tutti i supersuoni fighetti che ho messo per far rabbia a quei dannati svedesi”, pensa qualunque Man In Charge a Los Angeles. 
E così, c’è da capire Nicki Minaj o Miley Cyrus. Bisogna pur farsi ricordare per qualcosa mentre le voci vere vengono fatte inesorabilmente sparire, e a dire le cose che vorremmo dire noi saranno voci fintissime tutte uguali e sceme come a casa di Simona Izzo – finché non giungerà un sintetizzatore vocale più raffinato degli altri che risolverà il problema di avere cantanti in carne e ossa. Il problema è che li programmeranno per gorgheggiare anche più di quelli veri.

PS

Non so se vi aspettavate che commentassi la canzone Do they know it’s Christmas. Posso dirvi che oggi, vigilia di Natale, è al n.17 delle charts britanniche. Gosh. E che Bono ha cambiato quello che era il verso più potente e scandaloso, il famoso “Tonight thank God it’s them, instead of you”. Stavolta ha cantato “Tonight we’re reaching out and touching you”. Ehm, come dire: a quanto pare, non molto.